La forza di Fidel

Testimonianza – La scrittrice e giornalista cubano-americana Achy Orejas fa una riflessione sul rapporto indissolubile che il líder maximo condivideva con tutti i cubani in patria e in esilio
/ 05.12.2016
di Achy Orejas

Oakland, California. I titoli scorrevano sul desk del mio computer. Erano le dieci passate di venerdì. Leggo: è morto Fidel Castro. È una notizia che avevo aspettato per tutta la vita, eppure mi sentivo come sospesa. Non è che non ci credessi, piuttosto l’annuncio era stato dato talmente tante volte che molti di noi – cubani in patria e cubani all’estero – sono stati colti di sorpresa. Poi i commenti sono iniziati ad arrivare e io ho fatto quello che avevo fatto un milione di volte prima: cedere alla forza di Fidel.

I miei cugini di Miami mi hanno mandato un messaggio per dirmi che sarebbero usciti per le strade della città a sventolare la bandiera e a cantare per Cuba liberata. Un’altra mia cugina in Spagna singhiozzava, la tensione nella sua schiena – ha detto – era completamente sparita. «È come se un tuo vicino vecchio e scontroso fosse morto, qualcuno che conoscevi da una vita», ha commentato mia nipote da New Orleans. Una vecchia amica a Boston, cresciuta a Cuba ha detto: «Non provo niente». Le ho fatto notare che aveva pianto quando Fidel anni fa era svenuto sotto il sole, o quando si era rotto il ginocchio cadendo, ma lei non ha fatto una piega. «Sì, questi due eventi mi avevano impressionata, così come quando Fidel disse che non avrebbe più fatto il presidente. Ma la sua morte no».

I miei amici all’Avana hanno risposto alle mie chiamate senza commenti. «Sì, è morto…» e gli unici rumori di sottofondo che sentivo al telefono erano quelli della televisione accesa o della cucina. Me li potevo immaginare tutti con lo sguardo perso nel vuoto.

Tutti aspettavamo questo annuncio. Avevamo un legame con Fidel, sia chi era con lui sia chi lo aveva abbandonato, sia chi lo amava sia chi lo odiava. Una volta in un taxi a Istanbul l’autista mi chiese: «Sei cubana, che ne pensi di Fidel?». In una lavanderia a Chicago: «Sei cubana? Allora, chi è realmente Fidel?». A Honolulu in un’aula scolastica: « Tutto quello che so su Cuba è Fidel».

Ma come mi sento io invece? La distanza fra il mio corpo e Cuba non è mai stata così grande. Mi sento strana, sollevata e un po’ triste. Sono nata su quell’isola quando la rivoluzione ha scosso e ispirato il mondo dividendo in due il suo stesso popolo: quelli dentro e quelli fuori. All’età di 6 anni ho lasciato Cuba e alla fine degli anni 90 ci sono ritornata per qualche anno. Sedotta da un milione di cose che non avevano niente a che fare con Fidel e la sua rivoluzione: la luce, il chiasso, il sale. Stranamente non pensavo a Fidel.

Una volta, il 26 luglio di uno di quegli anni all’Avana, mi sono ritrovata nella stessa stanza con Fidel in occasione della commemorazione dell’assalto alla caserma di Moncada da parte di un gruppo di ribelli. Una mia amica ed io eravamo riuscite ad avere i biglietti. Quando Fidel è arrivato, abbiamo sentito tremare la stanza; era un uomo anziano, imponente come ne avevamo sentito parlare, ma ben oltre la nostra immaginazione. Il nostro stupore sembrava avere attirato il suo sguardo su di noi. Ci ha stretto la mano. Poi ho pensato terrorizzata: a Miami potrebbero vedere questa fotografia insieme a lui e la mia famiglia potrebbe morire all’istante. Per la mia amica, che viveva a Cuba, le cose potevano essere anche peggio. Siamo corse fuori a perdifiato fino a raggiungere il Malecòn. «Ho avuto paura che non sarei riuscita a tenere la bocca chiusa e che avrei incominciato a gridare “Abbasso Fidel”», aveva detto lei.

Quando le notizie della sua morte sono iniziate a scemare, ho ripensato ai miei genitori morti. Se fossero qui in questo momento, sono certa che sarebbero a festeggiare per le strade con i miei cugini di Miami. Mio padre conosceva Fidel fin dalla sua infanzia e proprio perché lo conosceva è uno dei pochi della sua generazione che non ha mai parteggiato per la rivoluzione. Mio padre lo detestava, con particolare rabbia perché secondo lui aveva spezzato la sua vita forzandolo all’esilio e rovinando il suo Paese.

Ma quando parlava di Fidel, di come era astuto rispetto a molti presidenti americani, di come era riuscito a scampare abilmente a tanti attentati, non era solo ammirazione la sua, tradiva una vera identificazione. Fidel impersonificava il meglio e il peggio di noi. Abbiamo amato la sua intelligenza, le sue sconfitte. Quando immaginava la nostra piccola isola come un continente, abbiamo condiviso la sua delusione. Abbiamo odiato le sue ambizioni e amato che lui le avesse. Quando ci si ritrova fra cubani e qualcuno assume un atteggiamento arrogante, si dice che è un piccolo Fidel. In realtà c’è in ognuno di noi. 

Non ci saranno grandi cambiamenti a Cuba ora che Fidel è morto. Nel 2006 aveva consegnato il potere al fratello Raul e nel 2008 ha reso di fatto definitive le sue disposizioni. Il futuro di Cuba non gli apparteneva più già da tempo, ma non è nemmeno nelle mani del popolo cubano.

Sabato mattina lo scrittore Nestor Diaz de Villegas ha diffuso una email che dice: «Fidel è morto. Non c’è un atomo, un briciolo, un minuto, una cellula, un millimetro della mia vita che non abbia avuto a che fare con Fidel Castro. Non so se ci sia qualche differenza fra Lui e me. Appartengo alla sua epoca, alla sua storia, alla sua resistenza. Sono io che sono morto, domani cremeranno anche me. Sulla pira del tiranno bruceranno anche una libbra della mia carne».

Ci sarà anche un po’ di me lì, insieme ai miei cugini, ai miei amici, ai miei genitori anche se non ci sono più. Fidel non si limitava solo a contenere le masse. Si era impossessato dei nostri destini e li aveva ridisegnati. Chi sarei io se non ci fosse stata la rivoluzione e se i miei genitori non fossero scappati? Chi sarebbero quelli che sono rimasti sull’isola se quelli che l’hanno lasciata fossero rimasti al loro fianco? Chi saremmo noi se Fidel non avesse causato questa lacerazione nelle nostre vite? Quando la sua morte non sarà più una notizia, saranno queste domande a perseguitarci sempre.

 

© 2016 «The New York Times», traduzione Monica Puffi.