«Abbiamo visto Gasser portato via, fuori dalla procura, su un furgone della polizia. Ha fatto appena in tempo a gridare alla moglie: “Miriam, saluta i ragazzi, ti amo”». Queste le parole scritte sui social dallo staff di EIPR, Egyptian Initiative for Personal Rights, il giorno dopo l’ondata di arresti che li ha investiti nelle ultime settimane.
L’uomo portato via dalla polizia, rasato e con un sorriso forzato sul volto è Gasser Abdel-Razek, direttore esecutivo dell’EIPR, organizzazione che da 18 anni svolge attività di ricerca in Egitto in difesa delle libertà civili ed economiche e della giustizia penale, con cui collaborava anche Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna, in Italia, detenuto al Cairo da febbraio con l’accusa di propaganda sovversiva. Il 15 novembre le forze di sicurezza hanno arrestato Mohamed Basheer, direttore amministrativo di EIPR, tre giorni dopo è stata la volta di Karim Ennarah, direttore della giustizia penale dell’Ong.
Gasser Abdel Razek ha subito denunciato gli arresti: «Sono la risposta all’incontro tenuto dall’organizzazione il 3 novembre con 13 diplomatici occidentali». Il giorno dopo è stato arrestato anche lui. Sono stati accusati di appartenere a un’organizzazione terroristica e diffondere false notizie minacciando la pubblica sicurezza. Hanno trascorso due settimane nella tristemente nota prigione di Tora, dormendo su letti di ferro senza materassi né abiti invernali. Come altri 60 mila detenuti politici egiziani.
L’Italia conosce bene la questione, visto l’omicidio di Giulio Regeni e la detenzione, ritenuta più che arbitraria, di Patrick Zaki
La prigione di Tora è considerata una delle peggiori al mondo. Una struttura gigantesca fondata nel 1908 dall’allora ministro dell’Interno Mustafa al Nahhas, divisa in quattro sezioni, più un’ala di massima sicurezza chiamata «lo Scorpione».
Le organizzazioni in difesa dei diritti umani denunciano da anni le terribili condizioni del carcere, le sistematiche violazioni dei diritti umani e le torture perpetrate al suo interno.
Prima di essere arrestato Abdel Razek aveva dichiarato a Mada Masr, sito d’informazione indipendente egiziano, di «essere scioccato che le forze di sicurezza si sentissero minacciate da un incontro con degli ambasciatori». Soprattutto perché i delegati in questione rappresentano paesi con cui l’Egitto ha ottimi rapporti: Francia, Germania, Canada, Svizzera, Regno Unito.
Dopo gli arresti il ministro degli Esteri francese ha espresso «profonda preoccupazione», il portavoce dell’ufficio consolare britannico ha comunicato al governo egiziano che «i difensori dei diritti umani dovrebbero essere in grado di lavorare senza timore di rappresaglie». Anche l’Unione europea ha comunicato la sua «significativa preoccupazione», così come Antony Blinken, nuovo segretario di Stato americano scelto da Joe Biden.
Ma l’Egitto ha rilanciato, continuando a denunciare interferenze negli affari interni, e confermando le accuse alle Ong accusate di minare la stabilità del Paese. Al-Sisi ha dichiarato che in Egitto non ci sono prigionieri politici e che la stabilità e la sicurezza sono i fondamenti dello Stato da salvaguardare a ogni costo.
Dopo la liberazione, il Tribunale per l’antiterrorismo del Cairo, accogliendo l’accusa della Procura generale dello Stato, ha congelato i conti correnti bancari dei tre esponenti di EIPR, decisione assunta senza aver prima ascoltato la difesa presentata dai legali dell’organizzazione a cui è stato di nuovo negato l’accesso agli atti giudiziari.
I tre detenuti sono stati liberati dopo una forte mobilitazione internazionale ma uno studente italiano resta ancora in carcere. La settimana scorsa, per l’ennesima volta, il tribunale del Cairo ha rinnovato di altri 45 giorni la custodia cautelare per Patrick Zakidell’Università di Bologna arrestato al Cairo il 7 febbraio scorso.
Per la prima volta dopo mesi, all’udienza erano presenti anche delegati diplomatici di Italia, Germania, Olanda, Canada e l’avvocato dell’Unione europea.
Il messaggio, chiaro, degli arresti, risiede proprio nella debolezza della diplomazia europea. Non è più solo un’intimidazione agli attivisti e ai ricercatori del Paese, è anche – forse soprattutto – un avvertimento alle diplomazie occidentali: sedetevi a tavola a negoziare sui giacimenti e sulla vendita di armi, ma sugli affari interni – diritti umani, pena di morte, detenuti politici – non mettete bocca.
Fa la parte del duro, al-Sisi, perché il tempo gli ha dimostrato che nonostante le dichiarazioni di preoccupazione dopo ogni ondata di arresti, le diplomazie occidentali non sono state in grado di fare alcuna pressione. Lo sa bene in Italia, la famiglia di Giulio Regeni, il ricercatore torturato e ucciso a Giza, sulla cui morte ancora non è stata fatta né chiarezza né giustizia.
Mentre si tenevano le udienze per la liberazione dello staff di EIPR e dello studente Patrick Zaki, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi era a Parigi per una visita di tre giorni, destinata a rafforzare la cooperazione bilaterale di fronte alle numerose crisi in Medio Oriente. Le organizzazioni internazionali hanno prontamente contestato la visita, 17 gruppi umanitari hanno rilasciato una dichiarazione accusando Macron di chiudere un occhio sulle crescenti violazioni delle libertà da parte del governo di al-Sisi, ma la posizione del presidente francese è stata di assoluta prossimità e vicinanza con l’omologo egiziano.
Macron ha infatti affermato, in una conferenza stampa lunedì scorso, che non condizionerà la vendita di armi all’Egitto alla difesa dei diritti umani, perché non intende indebolire il governo di al-Sisi nella sua azione di contrasto al terrorismo nella regione «È più efficace avere una politica di dialogo esigente che un boicottaggio che ridurrebbe solo l’efficacia di uno dei nostri partner nella lotta al terrorismo», ha detto Macron.
Francia e Egitto condividono interessi geopolitici ed economici: l’instabilità del Sahel, l’appoggio al generale Haftar in Libia ma soprattutto la vendita di armi. Tra il 2013 e il 2017 la Francia è stata il principale fornitori di armi in Egitto.
Anche durante la sua visita di Stato a Parigi, al-Sisi ha continuato a respingere le accuse di violazione dei diritti umani, sostenendo una volta ancora che sia inappropriato per altri Stati suggerire a un presidente come deve agire per tutelare il suo popolo e la stabilità del suo Paese.
Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, durante la visita di Sisi in Francia, ha scritto un lungo e severo editoriale su «Le Monde»: «Le azioni contro l’EIPR sono arrivate sullo sfondo di un’altra mossa sfacciata dell’Egitto verso l’Ue, che sta negoziando un nuovo accordo di aiuti con l’Egitto. In tutto il mondo, questi accordi sono normalmente condizionati al rispetto dei diritti umani da parte del destinatario. In passato, il governo egiziano aveva regolarmente firmato tali accordi. Ma negli ultimi due anni, ha rifiutato questa condizionalità». Roth critica i governi occidentali, suggerendo che fanno troppo pochi sforzi per chiedere, imporre, il rispetto di standard elementari dei diritti umani.
Come avevano già fatto, d’altronde, in seguito alla strage di Piazza Rabaa, quando in poche ore, nel 2013, l’anno del colpo di Stato, 820 manifestanti dei Fratelli Musulmani furono trucidati dalle forze di sicurezza legate a al-Sisi che allora era ministro della Difesa. L’impunità di quell’estate è stata la pietra angolare degli abusi degli anni successivi.
Scrive ancora Kenneth Roth a nome di Human Rights Watch: «Sisi ha abilmente giocato la sua mano per fare appello agli interessi europei, presentandosi come un baluardo contro il terrorismo e le migrazioni, un amico di Israele e un prolifico acquirente di armi. I governi europei hanno accettato questo sporco affare al prezzo dei diritti e delle libertà del popolo egiziano. Ciò ha solo incoraggiato Sisi a mettere a tacere la manciata di voci indipendenti rimaste nel Paese».
Il cambio di amministrazione negli Stati Uniti sarà un ulteriore banco di prova.
Nel settembre 2019, a Biarritz, in Francia durante il G7, mentre aspettava al al-Sisi, Trump disse – abbastanza forte per essere udito da tutti i presenti – «quando arriva il mio dittatore preferito?». Otto mesi dopo, Mohammed Amashah studente con la doppia cittadinanza americana e egiziana, è stato rilasciato al Cairo dopo 16 mesi di detenzione. Era stato arrestato nel marzo 2019 mentre esibiva in piazza Tahrir un cartello con la scritta «libertà per tutti i prigionieri politici».
Dopo la sua scarcerazione Joe Biden aveva scritto: «Arrestare, torturare ed esiliare attivisti o minacciare le loro famiglie è inaccettabile. Niente più assegni in bianco per il “dittatore preferito” di Trump».
Niente più assegni in bianco, ha scritto Biden. L’Egitto sarà una delle prove del suo mandato, come da anni lo è per i governi europei, che si sono dimostrati distratti sugli abusi e concentrati sugli affari. Abili a condannare la repressione, ma ben più abili nel non menzionare abusi e violazioni ai tavoli delle trattative economiche con un regime sempre più autoritario. Ma tollerato.
La forza delle armi
Egitto – Macron non condizionerà la vendita di armi all’Egitto al rispetto dei diritti umani, perché non intende indebolire il governo di Sisi. Ma anche il resto dell’Europa tace
/ 14.12.2020
di Francesca Mannocchi
di Francesca Mannocchi