La fissa del Cremlino

La Libia, oggi divisa in due aree di influenza, è da lungo tempo al centro degli interessi strategici di Mosca
/ 15.03.2021
di Alfredo Venturi

C’è un muro, in Libia, che ci dice molte cose sulla condizione di quell’accidentato Paese e sulle sue prospettive. Lo stanno ultimando gli uomini del generale Khalifa Haftar aiutati dai mercenari russi del Gruppo Wagner, la potente milizia privata agli ordini del Cremlino. Si tratta di un insieme di sbarramenti e fortificazioni che attraversa il deserto dal Golfo della Sirte all’oasi di al-Jufra, dove c’è una base aerea affollata di cacciabombardieri russi. La barriera separa le aree controllate, con l’aiuto dei turchi, dal Governo di accordo nazionale di Tripoli da quelle che fanno capo al Parlamento ribelle di Tobruk, sostenuto da Mosca. Quel muro è destinato a durare, a cristallizzare una situazione che la lunga guerra civile seguita alla caduta del regime di Gheddafi nel 2011 non ha potuto sbloccare. Dunque da una parte il Governo di Tripoli riconosciuto dall’Onu e aiutato dalla Turchia, dall’altra l’Amministrazione cirenaica che si appoggia sulla presenza russa. É una sorta di spartizione delle aree d’influenza, concordata fra Mosca e Ankara.

In questo contesto, una speranza è rappresentata dal nuovo Governo di unità nazionale di Abdul Hamid Dbeibah (il primo Esecutivo unito dal 2014), il quale si prepara a indire le elezioni per guidare l’intero Paese (che quindi, almeno sul piano formale, dovrebbe risultare unificato sotto l’egida delle Nazioni unite). Ma torniamo alla Russia.

Se sono ovvie le ragioni dell’interesse turco a quella che fu per secoli parte dell’Impero ottomano, può forse sorprendere l’attivismo russo sulla «quarta sponda» dell’Italia colonialista. In realtà questo interesse s’iscrive in una solida tradizione storica. Fin dai tempi imperiali la Russia è stata ossessionata dalla questione dell’accesso ai mari caldi, una vera e propria costante della sua azione diplomatica e militare. Per uscire dal Mar Nero e inoltrarsi nel Mediterraneo, le flotte dello zar provenienti dalla grande base di Sebastopoli dovevano attraversare gli stretti, e questo ha determinato una condizione di perenne ostilità nei confronti di un altro impero, l’Ottomano, padrone e custode del Bosforo e dei Dardanelli.

A partire da metà Cinquecento fra San Pietroburgo e Costantinopoli sono stati combattuti undici conflitti, dodici se consideriamo anche la Prima guerra mondiale. Vale la pena notare come in questi ultimi anni il comune interesse per la Libia e altre questioni mediorientali abbia avvicinato i due nemici del passato. Il controllo degli stretti da parte della Turchia, che nonostante la recente evoluzione neo-ottomana è pur sempre vincolata all’Alleanza atlantica, non impedisce certo alle navi russe di scorrazzare nel Mediterraneo.
Del resto l’Unione sovietica, erede diretta dell’Impero zarista, non volle affatto modificare la storica aspirazione russa a una presenza forte nel Mediterraneo.

Quando nel 1948 la Jugoslavia del maresciallo Tito si scrollò di dosso la soggezione a Mosca, un duro contraccolpo scosse fin dalle fondamenta le certezze del Cremlino: l’Europa a trazione sovietica, che pochi anni più tardi avrebbe costituito il Patto di Varsavia, improvvisamente privata dello sbocco sull’Adriatico, cioè di un accesso diretto al Mediterraneo. Potrebbe sembrare un problema da poco per una grande potenza, per uno dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu al quale nessuno avrebbe potuto negare la libertà di navigazione. Ma si sa che la diplomazia è solita elaborare scenari anche per le eventuali situazioni di crisi. Dunque nella nascente contrapposizione dei blocchi che aveva preso il posto della grande alleanza anti-hitleriana, nei tempi della Guerra fredda che rischiava ogni attimo di diventare calda, la perdita dei porti jugoslavi aveva un peso non indifferente.

Poco più di un paio d’anni prima della defezione di Tito, l’Unione sovietica aveva tentato di cogliere al volo una favorevole occasione per installarsi in Libia. Si stava discutendo del destino delle colonie che il trattato di pace aveva sottratto all’Italia. Mentre Roma cercava di conservarle, con l’argomento delle folte comunità italiane che ancora vivevano nei territori oltremare, le Nazioni unite erano orientate piuttosto verso la concessione dell’indipendenza, eventualmente preceduta da un periodo di amministrazione fiduciaria. Questo strumento dell’Onu era qualcosa di simile al mandato della Società delle Nazioni che era stato scelto al termine della Prima guerra mondiale per distribuire fra Gran Bretagna, Francia e Belgio le colonie strappate alla Germania sconfitta. Proprio l’Onu avrebbe scelto i Paesi ai quali affidare il compito di guidare le ex colonie verso l’indipendenza.

Nel gennaio 1946, durante una riunione a Londra dei sostituti dei ministri degli Esteri dei «quattro grandi», nella sorpresa generale il rappresentante russo chiese per Mosca l’amministrazione fiduciaria della Libia e dell’Eritrea. Una proiezione verso il Mediterraneo e il Mar Rosso, temporanea ma chiaramente capace di fissare stabili radici nei due territori. La proposta russa fu accolta dalle perplessità occidentali, al punto che Mosca corresse il tiro rinunciando all’Eritrea, per la quale si prospettava l’indipendenza o l’annessione all’Etiopia, e concentrando l’azione sulla Libia.

Agli occhi del Cremlino la prospettiva era inebriante. Anche per una ragione ideologica che si affiancava a quella strategica: installandosi sulle aride coste libiche l’Unione sovietica, già padrona dell’Europa orientale, avrebbe perfezionato l’accerchiamento del nemico di classe. E pazienza se per arrivarci occorreva sacrificare un principio teoricamente intoccabile, l’anticolonialismo, uno dei rarissimi che accomunavano l’Urss all’altra superpotenza, gli Stati Uniti, nata non a caso da una guerra di liberazione dalla sudditanza coloniale.

Per raggiungere un simile risultato fu avviata una capillare campagna di persuasione. Addirittura nei corridoi della diplomazia si arrivò a parlare di baratto Trieste-Tripoli. Pur di ottenere l’amministrazione fiduciaria della Libia, Mosca avrebbe fatto pressione sulla Jugoslavia, all’epoca ancora un fedele alleato, perché lasciasse perdere le sue mire sulla città adriatica che considerava una sorta di bottino di guerra. In pratica l’Unione sovietica accettava, nella sua visione del momento, di arretrare la cortina di ferro. Tanto attivismo alla fine si rivelò inutile e i russi non ritennero opportuno contrastare con il veto l’ormai inevitabile corso degli eventi. La Libia fu dichiarata indipendente e Trieste tornò all’Italia dopo alcuni anni turbolenti di amministrazione alleata.