La fine di un sogno?

Libano - Il Paese che una volta era definito «la Svizzera del Medio Oriente» sta vivendo un momento economico tragico
/ 17.08.2020
di Marzio Minoli

Quando si parla di Medio Oriente spesso il pensiero corre verso una zona dove la pace sembra essere una chimera. Decenni di conflitti ne caratterizzano la storia, innescati soprattutto dalla presenza dello Stato di Israele, mai completamente accettato dalle nazioni arabe. Anche il Libano ha vissuto il suo periodo di guerra. Anche il Libano ha avuto i suoi problemi con Israele. Ma più che con lo Stato ebraico, il paese dei cedri, così viene soprannominato il Libano, ha vissuto una guerra civile durata quindici anni, dal 1975 al 1990.

A fronteggiarsi le forze appartenenti alle diverse religioni presenti. La frange cristiane contro le frange mussulmane. Ma questa diversità culturale e sociale non è solo stata causa di guerra, bensì è stata, e rimane, anche la ricchezza del Libano. E questo è uno degli elementi che è valso al paese il soprannome di «Svizzera del Medio Oriente». Culture diverse, che vivono in modo relativamente pacifico sotto la stessa bandiera.

Anche la neutralità è un elemento che lo accomuna alla Svizzera, ma la similitudine più evidente è quella del sistema bancario. Un sistema che è stato la spina dorsale dell’economia libanese per decenni. Un sistema bancario aiutato nel suo sviluppo dal fatto che il paese, anche per la sua neutralità, era un centro regionale di riferimento per il commercio. Prima della guerra civile soprattutto Beirut aveva questo ruolo. Il settore dei servizi è sempre stato preponderante. A Beirut era un fiorire di aziende dedite ai trasporti e al commercio internazionali.

Oltre a questo, anche il turismo era una voce importante dell’economia libanese. Siti archeologici, il clima mite, grandi alberghi e ristoranti, così come molte attività culturali di respiro internazionale hanno contribuito al suo sviluppo. E naturalmente il tutto era supportato da un sistema bancario e finanziario di prim’ordine, tanto che per un certo periodo, fino alla metà degli anni 60, il Libano era anche diventato un paradiso fiscale, l’unico del Medio  Oriente.

Ma non solo negli anni d’oro. Durante i primi dieci anni della guerra civile, paradossalmente gli avvenimenti bellici hanno anche contribuito allo sviluppo delle banche. Infatti, durante quel periodo molti libanesi ripararono all’estero ma continuavano a inviare capitali nelle banche libanesi. Questo almeno fino agli inizi degli anni 80, quando i flussi diminuirono e la lira libanese crollò. Una situazione che costrinse il paese a rivolgersi al mercato dei capitali, sia interno che internazionale. Come risultato oggi il Libano è il terzo paese più indebitato al mondo rispetto al prodotto interno lordo, dietro a Giappone e Grecia.

Debiti altissimi dunque, e già questo potrebbe essere una fonte di tensione sociale. Ma questa condizione, seppur necessaria, non è sufficiente, come altri paesi insegnano. Il sistema bancario ha continuato a crescere. Anche durante la crisi finanziaria non ha subito molti danni. E tra il 2011 e il 2019 i depositi sono aumentati di 253 miliardi di dollari, cinque volte il prodotto nazionale lordo del paese.

Come mai tutto questo successo? Il Libano praticamente deve importare tutto e la merce viene pagata soprattutto in dollari. La Banca Centrale ha spesso pagato interessi molto alti a tutti coloro che depositavano dollari. Fino al 10%. Le banche commerciali hanno poi applicato la stessa percentuale ai clienti, favorendo un grosso afflusso di dollari nelle loro casse.

Ma il sistema si basava molto sulla fiducia, e questa fiducia è venuta a mancare già la scorsa estate. Come mai? Le nuvole nere di una pesante crisi economica si intravedevano all’orizzonte. La mancanza di riforme strutturali per contenere il deficit di quasi il 10% annuo, un debito pubblico al 150% del prodotto interno lordo, la crisi siriana che continua a pesare: tutti elementi che hanno fatto fuggire molti investitori, facendo diventare quelle nuvole nere una vera e propria tempesta, che ha portato alle proteste di piazza degli ultimi mesi.

Ed è forse la ricca diversità culturale del Libano una delle cause di questo momento tragico. Nel paese ci sono 18 confessioni religiose ufficialmente riconosciute, e il potere viene suddiviso tra le maggiori di queste. Il Presidente deve essere cristiano maronita, il Primo ministro sunnita e il Presidente del Parlamento sciita, secondo uno schema che si trascina da decenni, dal 1943, anno dell’indipendenza dalla Francia e che dopo la guerra civile è stato ulteriormente rafforzato. Un sistema che, a detta dei manifestanti, è corrotto e inefficace, e che ha lasciato cadere il paese nel baratro.

Fino al 2011 il PIL libanese cresceva ad una media del 9,2%, secondo le stime della Banca Mondiale. Dal 2011 al 2017 questa percentuale è scesa al 1,75%. Poi, dal 2018, crescita negativa. Meno 1,9% nel 2018. Meno 5,6% nel 2019. A tutto questo si aggiunge che il Libano ha un debito di 90 miliardi di dollari che non riesce a ripagare. E per dare l’idea di come il paese sia radicato a logiche di potere discutibili, basti pensare che il presidente della Banca Centrale, Riad Salamé, è in carica ininterrottamente dal 1993.

Ma siccome i guai non arrivano mai da soli ecco il Covid, che ha portato al lockdown, e nelle scorse settimane la distruzione del porto di Beirut, la principale porta d’entrata di un paese, come detto, che deve importare tutto. Come uscire da questa situazione? Il Libano ha bisogno di almeno 20 miliardi di dollari, che arriveranno da istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale. Ma prima FMI e altri vorranno delle garanzie di riforme strutturali. Condizioni già poste in passato, ma mai realizzate. Questa potrebbe essere la volta buona per cambiare un sistema che sembra non interessare più nemmeno le nuove generazioni. Quelle che adesso sono in piazza a protestare, unite, a prescindere dalla religione.