Mikhail Sergeevič Gorbačëv è oggi consegnato alla storia come l’uomo di Stato che distrusse il suo Stato in sei anni. Quale segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica (Pcus) e – titolo accessorio – presidente dell’Urss, Gorbačëv ha avuto certamente parte fondamentale in quel clamoroso suicidio che dal paese più grande del mondo generò quindici repubbliche, tra cui la rigenerata Russia. Ridurre però la traiettoria del singolare statista a questa pur notevole impresa rischia di farci perdere di vista il contesto e il senso di quella rivoluzione geopolitica, le cui conseguenze sono sotto i nostri occhi.
Gorbačëv era un comunista e non ha mai cessato di esserlo. Comunisti erano Lenin, Stalin, Malenkov, Chruščëv, Brežnev, Andropov, Černenko, insomma tutti i suoi predecessori. Almeno altrettanto comunisti erano i loro oppositori interni, una quota rilevante dei cittadini dell’Urss come anche un discreto numero di dissidenti. Questo per onor del vero, ma anche per ricordare come il tracollo del regime e dello Stato sovietico non possono essere spiegati in termini di mera ideologia. Insomma, a fallire non è stato tanto il «Dio» marx-leninista, nella molto adattata versione sovietica, quanto un sistema che pure, fino agli anni Settanta, molti – fra cui diversi suoi avversari – consideravano destinato a durare per molto tempo.
Si può discutere quanto si vuole sulla riformabilità o meno dello Stato sovietico. Non ci sono risposte certe, perché nessuno ha mai veramente tentato l’esperimento. Ma è molto probabile che quando nel 1985 salì al potere quel figlio di contadini, così diverso nello stile e nel linguaggio dai segretari generali del Pcus che lo avevano preceduto, l’Urss aveva raggiunto e superato la soglia della sua riformabilità. Intesa come salvaguardia delle strutture e della forma geopolitica dello Stato erede dell’impero degli zar, sostenuta però da un’economia funzionante, aperta al mercato e da qualche grado di democrazia. In ogni caso l’operazione che Gorbačëv ambiguamente «vendette» all’Occidente – o che l’Occidente così volle intendere, salvo eccezioni – si presentava con quei tratti riformatori.
Poiché l’Urss era un partito fatto Stato, la crisi finale cominciò con la malattia del Pcus, accelerata dalle incertezze e dalle contraddizioni politico-ideologiche del gorbaciovismo. Sarà poi Eltsin a imporre a Gorbačëv di firmare il decreto di scioglimento del partito di Lenin, che però era ormai cerebralmente morto. E qui la componente ideologica ha avuto un peso. Il comunismo era il soft power della superpotenza sovietica. Ideologia di matrice occidentale che Lenin, interpretandola in modo abbastanza arbitrario, ridusse a credo legittimante il colpo di Stato dell’ottobre e l’instaurazione di un sistema di governo consiliare presto svuotato di ogni senso e ridotto a dittatura del proletariato (nominale), ovvero del partito (effettiva).
Gorbačëv e i suoi collaboratori inventarono il «nuovo pensiero», surrogato moralistico del marxismo-leninismo, di fatto poco più – o molto meno – di una filastrocca di «buoni» propositi e di intenzioni ecumeniche o presunte tali. Destino volle che dall’altra parte della barricata della guerra fredda vi fosse allora Ronald Reagan. Leader forse non coltissimo ma intelligente nella sua semplicità. Il quale era perfettamente convinto a differenza dei suoi predecessori che il comunismo sovietico fosse giunto alla fine della parabola. Un villaggio Potëmkin da smascherare e demolire, o meglio accompagnare all’autodemolizione. Gorbačëv non lo pensava e anzi si batteva per salvare il suo Stato, senza sapere bene come.
Sotto il profilo geopolitico, però, aveva un piano. Consisteva nella convinzione che l’impero europeo dell’Urss, costruito da Stalin nella grande guerra patriottica, fosse ormai un impedimento e non una risorsa per Mosca. Nel gergo dei suoi era la «zavorra», da liquidare appena possibile, d’intesa con l’Occidente o meno. Per questo quando il Muro di Berlino cadde, dal Cremlino non giunse affatto l’ordine di mobilitare le truppe sovietiche di stanza nella DDR, come molti a Washington si attendevano. E per questo Gorbačëv non si oppose alla riunificazione della Germania, come avrebbe potuto. Anzi, fu subito aperto al dialogo con Kohl, al quale chiese come compensazione per la cessione della DDR 5 miliardi di marchi. Sicché tra crollo del Muro di Berlino (9 novembre 1989) e crollo dell’Urss (26 dicembre 1991) passarono due anni, con a metà percorso l’annessione dell’ex Germania comunista da parte della Repubblica federale Germania (3 ottobre 1991). Tutto molto veloce. Una valanga, cui Gorbačëv dette forse la spinta decisiva. Accelerando la sua corsa. Come quasi tutte le grandi svolte geopolitiche nessuno, a cominciare dai suoi promotori, aveva idea di quale processo avesse messo in moto. Quanto accade oggi in Ucraina ne è terribile conferma.