Questa volta lo scontro israelo-palestinese ha investito il cuore di Gerusalemme e proprio per questo sarà difficile spegnere l’incendio che è stato appiccato. All’alba del 14 luglio scorso tre giovani palestinesi hanno aperto il fuoco contro i poliziotti israeliani che pattugliavano la Porta dei Leoni, una delle entrate nella Città vecchia. Nello scontro gli attentatori si davano alla fuga e sono stati freddati nella Spianata delle moschee (l’Haram al-Sharif), mentre tre agenti israeliani rimanevano feriti. Due sarebbero morti di lì a poco in ospedale.
Tutte le vittime avevano la cittadinanza israeliana, ma non erano ebrei. I poliziotti, infatti, appartenevano alla minoranza etno-religiosa drusa, che pratica un monoteismo esoterico di derivazione mussulmana, e i terroristi erano sì palestinesi, ma arabi-israeliani, come vengono chiamati i discendenti dei palestinesi che nel 1948, al momento della creazione dello Stato di Israele, invece di fuggire accettarono la cittadinanza israeliana e oggi costituiscono il 17,5% della popolazione. Per la cronaca, i tre venivano da Umm al-Fahm vicino ad Haifa. La minoranza drusa concentrata in Galilea e sulle Alture del Golan non ha mai avanzato rivendicazioni nazionaliste con lo Stato israeliano, tant’è che i suoi membri vengono regolarmente arruolati nella polizia e nell’esercito. Agli arabi-israeliani, invece, il servizio militare e l’uso professionale delle armi è precluso. Nella dinamica dell’attentato terroristico del 14 luglio, perciò, c’erano già elementi di scontro inter-comunitario multiplo (ebrei-arabi israeliani-drusi) che potevano minare la stabilità del paese.
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha pertanto ritenuto opportuno chiudere tutti gli accessi all’Haram al-Sharif «per motivi di sicurezza» e annullare la rituale preghiera del venerdì nella Spianata delle moschee (il 14 luglio era, appunto, un venerdì). E proprio questo provvedimento ha messo in moto un’«ondata di collera» (la definizione è di Hamas) che di giorno in giorno ha assunto caratteri sempre più aspri e ha finito per far passare in secondo piano il fatto che nell’Haram al-Sharif fosse stato compiuto l’ennesimo attacco terroristico.
Il primo a protestare è stato il Muftì di Gerusalemme Mohammed Hussein che è stato arrestato e subito scarcerato dalla polizia, mentre masse di fedeli occupavano tutta l’area circostante la Spianata per pregare. Più discretamente, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen alias Mahmoud Abbas, si metteva in contatto con Netanyahu per decidere il da farsi (proprio loro che dal 2014 non riescono a sedersi al tavolo di uno straccio di negoziato, soprattutto per l’intransigenza del primo ministro israeliano). Naturalmente non poteva mancare l’intervento della Giordania che attraverso il suo ministero dei Beni Religiosi (Waqf) è ancora custode dei luoghi santi dell’islam nell’Haram al Sharif, come lo era prima della conquista di Gerusalemme Est da parte di Israele nella Guerra dei sei giorni del 1967.
Netanyahu, e siamo ancora al 14 luglio, continuava a ripetere che «lo status quo» nella Spianata delle moschee sarebbe stato ripristinato, intendendo con questo che il provvedimento di chiusura sarebbe stato revocato, una volta fatti tutti i debiti controlli di sicurezza. D’altronde, solo il 16 giugno precedente, tre palestinesi avevano compiuto due attacchi simultanei nella Città vecchia ed era morta una giovane poliziotta israeliana. Inquietante il fatto che l’attacco fosse stato rivendicato sia da Hamas che dall’Isis. Con questi chiari di luna, tutelare la sicurezza per il premier, come per tutti i politici israeliani di qualsiasi partito in qualsiasi momento storico di Israele, era un imperativo, ma Netanyahu forse credeva che appellarsi allo status quo ante sarebbe bastato a calmare gli animi. In base al suddetto status quo tutti i mussulmani hanno libero accesso alla fatidica Spianata , ma anche gli ebrei purché non ci vadano a pregare (visto che il Muro del Pianto è a due passi). Ma ormai la tensione stava raggiungendo livelli davvero allarmanti perché nello stesso giorno, nel corso di un raid nel campo profughi di Dheisheh a sud di Betlemme nella Cisgiordania occupata, militari israeliani avevano ucciso un diciottenne palestinese.
Quando il 16 luglio gli accessi alla Spianata delle moschee sono stati muniti di metal detector, i palestinesi hanno alzato il tiro. Mentre le autorità israeliane giustificavano il provvedimento affermando che le armi con cui erano stati uccisi i due poliziotti erano state nascoste nell’Haram al Sharif e da lì le avrebbero prelevate gli attentatori prima di cominciare a sparare alla Porta dei Leoni, i palestinesi vedevano invece in quei metal detector la volontà di Israele di assumere il controllo esclusivo e definitivo della Spianata. Il problema per loro non era più una questione di sicurezza, ma in toto l’occupazione israeliana dei Territori da cinquant’anni a questa parte, con Gerusalemme in testa. In pratica il nocciolo duro dello scontro israelo-palestinese. Ad urlare in prima linea c’era il portavoce di Hamas, Sami Abou Zohri, che giustificava l’attacco del 14 luglio come «una risposta naturale al terrorismo sionista e alla profanazione della moschea di al-Aqsa» (che nessun israeliano, peraltro, ha mai profanato).
Di quale miccia possa diventare Gerusalemme, se ne è avuta prova nei giorni successivi. Tutta la stampa araba ha condannato i metal detector installati alle soglie dell’Haram al Sharif con toni religiosamente o politicamente scandalizzati. L’unico a congratularsi con Israele per il provvedimento è stato il presidente americano Trump. Intanto l’Autonomia nazionale palestinese ha proclamato lo sciopero di tutti gli esercizi commerciali in Cisgiordania, mentre il suo presidente Abu Mazen ha chiuso lo stesso 16 luglio tutti i canali di comunicazione con Netanyahu. Dal canto loro le autorità islamiche hanno suggerito ai palestinesi di andare a pregare ogni giorno nei pressi delle entrate della Spianata, su marciapiedi, piazzole, ogni centimetro di strada disponibile, per denunciare in questo modo l’uso dei metal detector. Invano la stampa israeliana filo-governativa ha fatto notare che ormai i metal detector circondano i luoghi santi di qualsiasi religione, San Pietro in testa. Fatalmente tra una preghiera e l’altra e l’abnorme affluenza di persone verso la Spianata delle moschee si sono moltiplicate le zuffe e i tafferugli tra polizia e palestinesi e ci è scappato il morto. Anzi tra il 16 e il 25 luglio i morti sono stati 5, tutti palestinesi, colpiti direttamente o indirettamente dalle pallottole di gomma dei militari israeliani. E l’escalation ha travalicato la stessa Gerusalemme. Il 21 luglio tre israeliani sono stati accoltellati nella colonia ebraica di Halamish detta anche Neveh Tzuf in Cisgiordania. Il giovane palestinese attentatore è stato ferito prima di essere arrestato ed è risultato essere un militante di Hamas. Nei giorni seguenti l’esercito israeliano ha compiuto vari raid in Cisgiordania e ha arrestato 29 esponenti di Hamas, tra cui funzionari e politici di spicco del Movimento nella Striscia di Gaza. Striscia di Gaza da cui il 23 luglio è partito addirittura un razzo verso Israele, senza provocare morti o feriti. Sempre il 23 luglio, infine, in un edificio adiacente all’ambasciata israeliana ad Amman, capitale della Giordania, un agente di sicurezza dell’ambasciata medesima è stato colpito alla schiena con un cacciavite da un arabo ma è comunque riuscito ad uccidere il suo aggressore. Si è temuta la rottura delle relazioni diplomatiche tra Israele e uno dei due paesi, la Giordania, con cui ha stipulato un trattato di pace (l’altro è l’Egitto), ma la situazione è tornata alla normalità. Per ora.
Svezia, Francia e Egitto hanno comunque chiesto una riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu, e il 26 luglio Netanyahu ha fatto smantellare i metal detector. La cosa gli è costata un grave calo di popolarità. Secondo un sondaggio del canale televisivo israeliano Channel 2 ben il 77% degli intervistati ha considerato lo smantellamento «una capitolazione» nei confronti dei palestinesi. Al posto dei metal detector verranno comunque installate telecamere capaci di identificazioni biometriche, ma Abu Mazen lo stesso 25 luglio ha affermato che i palestinesi non accetteranno nemmeno quelle. Nonostante la protesta per la chiusura dell’Haram al-Sharif abbia unito i palestinesi, sia Abu Mazen che Hamas colgono l’occasione per disputarsi la guida della protesta medesima, sperando che questo giocare col fuoco si traduca in un guadagno politico.
E visto che sfruttando il momento tutti cercano di trarre profitto dalla manipolazione dei siti religiosi, sempre il 25 scorso un centinaio di coloni ebraici duri e puri ha occupato un edificio adiacente alla Tomba dei Patriarchi a Hebron, una città che per gli ebrei è seconda solo a Gerusalemme, ma è abitata da 200.000 palestinesi. Detto in altre parole, a cerchi concentrici, la «febbre di Gerusalemme» sta infettando israeliani e palestinesi e questo non prelude a niente di buono.