C’erano una volta le guerre dell’oppio: furono a metà dell’Ottocento, quando l’Inghilterra non esitò ad attaccare militarmente la Cina per costringerla ad aprirsi alla droga che l’impero britannico produceva nelle sue colonie. All’origine c’era un problema di bilancia dei pagamenti. Londra aveva i conti in eterno rosso con la Cina, perché i suoi consumatori erano avidi di tè cinese e sete cinesi, mentre l’Impero celeste comprava poco made in England. Il narcotraffico di Stato divenne la scorciatoia per bilanciare lo squilibrio. I cinesi se lo ricordano ancora. Nel frattempo una metafora oppiacea si addice all’America: l’economia più ricca del mondo sembra un tossicodipendente che non riesce a svezzarsi da una droga, in questo caso il made in China. Cambiano i presidenti e le maggioranze congressuali, cambiano le politiche economiche, ma una costante dell’America non delude mai: il deficit commerciale continua a crescere. Con o senza dazi doganali. E in barba a tutte le promesse solenni della Cina di importare più prodotti made in Usa.
Una cosa però è cambiata davvero: non si sente più l’effetto deflazionistico dello «sconto cinese». Per un trentennio l’invasione di prodotti asiatici a buon mercato era stato il miglior calmiere dei prezzi, a vantaggio del consumatore americano, anche se aveva impoverito la classe operaia americana. Ora l’inflazione Usa, che viaggia al 7,5% pur in presenza di una forte ripresa negli acquisti dalla Cina, conferma che il made in China sta rincarando. E la causa principale non sono i dazi bensì gli aumenti dei costi di produzione: i salari cinesi salgono, le materie prime pure.
Gli Stati Uniti hanno chiuso il 2021 con un record storico assoluto per il loro deficit negli scambi con l’estero; la loro bilancia commerciale è peggiorata del 27% andando in rosso per 860 miliardi di dollari. Quasi la metà di questo deficit è verso la Cina: 355 miliardi di disavanzo bilaterale, in peggioramento del 14,5% sul 2020. L’aumento del deficit commerciale americano ha molte cause, e non tutte negative. Anzi, bisogna cominciare da questa constatazione: un deficit commerciale può essere un segnale di buona salute dell’economia, perché significa che imprese e consumatori hanno redditi più alti e quindi aumentano le proprie spese per acquisti dall’estero. Questa spiegazione è tra le più importanti: l’economia americana l’anno scorso è cresciuta più di altre (+5,6% l’aumento del Pil americano contro una media del +5% per le economie avanzate), di conseguenza sono ripartiti al rialzo gli investimenti delle imprese e la spesa dei consumatori. Una parte di questi si traducono in acquisti di beni importati, dai macchinari made in Germany per le imprese, ai laptop made in China per i consumatori.
Un’altra causa generale di questo deficit invece è legata al Coronavirus. Durante la pandemia le spese dei consumatori si sono spostate: siamo tutti andati meno spesso (o per nulla) al ristorante, al cinema, a teatro, in viaggi di vacanza, in albergo, in aereo. Queste voci di spese, che appartengono al vasto settore dei servizi, hanno un peso notevole nell’economia americana e hanno subito una forte riduzione. Dal resto del mondo sono crollati i viaggi per vacanze o per lavoro negli Stati Uniti, riducendo un introito di valuta estera che influisce sulla bilancia dei pagamenti. Gli stessi americani, spostando le proprie spese a scapito dei servizi turistici e di spettacolo a favore dell’acquisto di beni consegnati da Amazon sul portone di casa, hanno dedicato meno denaro a quel settore di servizi che è domestico, mentre hanno speso più denaro nell’acquisto di prodotti, una parte dei quali arriva dall’estero. Causa pandemia si è ridotto anche il flusso di valuta estera portato dagli studenti stranieri. Ma nel rapporto con la Cina hanno pesato anche altri fattori. Qui il bilancio è negativo: Xi Jinping non ha mantenuto nessuna delle sue promesse per ridurre l’enorme squilibrio. Quando c’era ancora Donald Trump alla Casa Bianca, il governo di Pechino aveva promesso di aumentare di 200 miliardi di dollari le proprie importazioni dagli Stati Uniti entro il 31 dicembre 2021. Ha mantenuto solo il 57% di quella promessa.
Joe Biden è in una posizione scomoda: deve in qualche modo reagire, castigare la Cina per le promesse tradite. Ma come? Il presidente degli Usa ha già confermato quasi tutti i dazi di Trump sul made in China, e tuttavia quei dazi hanno avuto un effetto modesto nel ridurre la dipendenza americana dai fornitori cinesi.
Una constatazione s’impone nella lettura dei dati sul commercio estero. L’America fa una fatica enorme a riportare sul proprio territorio delle produzioni che per decenni erano state delocalizzate verso la Cina. Per adesso, anziché assistere a un ritorno di attività produttive sul suolo degli Stati Uniti, si comincia a vedere uno spostamento dalla Cina verso altri paesi asiatici. I principali beneficiari sono Vietnam, Thailandia e Malaysia per produzioni ad alta intensità di manodopera dove conta il costo del lavoro (tessile-abbigliamento, calzature), Taiwan, Singapore e Corea del Sud per prodotti tecnologici sofisticati, dai semiconduttori ai computer. In percentuale, il made in China ha perso terreno rispetto a tutti i suoi concorrenti asiatici, paesi più poveri con salari inferiori a quelli cinesi, o paesi più ricchi con industrie tecnologiche avanzate.
Tra le contraddizioni in cui si dibatte Biden ce n’è una che coinvolge l’Europa, in maniera identica. Sia il maxi-piano di investimenti in infrastrutture e sostenibilità che il presidente americano ha varato, sia i fondi del Next Generation Eu per le energie rinnovabili, finiranno in parte in Cina. Investire nella sostenibilità significa – tra le altre cose – comprare pannelli solari. La Repubblica popolare, con la sua politica di sussidi pubblici ai campioni nazionali, e vendite in dumping (sottocosto) ha esercitato una concorrenza sleale verso le aziende occidentali e ne ha fatte fallire molte.
Biden ha deciso di alzare nuovi dazi contro il made in China nei pannelli solari: ha appena messo una tassa doganale del 15% valida per quattro anni e rinnovabile. Al tempo stesso, però, ha ampliato l’elenco dei pannelli fotovoltaici made in China che sono esenti da quei medesimi dazi. Perché altrimenti molti americani – aziende e famiglie – non troverebbero sul mercato gli impianti fotovoltaici che intendono acquistare. Anche in questo specifico settore s’impone la constatazione: svezzarsi dalla dipendenza dalla Cina è un obiettivo legittimo, ma tutt’altro che facile in pratica.
Nel frattempo Biden sta cercando di far passare un’altra manovra di spesa pubblica al Congresso, disegnata in modo da «copiare la Cina»: cioè usare le risorse dello Stato per sostenere la ricerca, l’innovazione, il rafforzamento dei «nostri» campioni nazionali. Per esempio nell’industria dei semiconduttori, le memorie elettroniche che oggi scarseggiano sui mercati e provocano rallentamenti a catena in molti settori (automobile in testa). I sussidi pubblici che Biden vuole offrire alle sue imprese sono un tentativo di recuperare anni di ritardo sulla Cina, durante i quali la grande rivale ha fatto balzi in avanti nella sua modernizzazione tecnologica, sotto la guida e la protezione delle autorità pubbliche.