L’Amazzonia va a fuoco. Non da oggi, da anni. Ma oggi va a fuoco molto più spesso e molto più rapidamente di prima. Stanno andando in fumo porzioni di foresta molto maggiori a qualche anno fa sia in senso assoluto, come estensione, sia in percentuale rispetto alla quantità rimasta di bosco tropicale, spaventosamente ridottosi. L’emergenza è reale, lo dimostrano i dati dei principali istituti internazionali specializzati. È vero, come sottolineano i ricercatori più cauti, che gli incendi si moltiplicano nella stagione secca iniziata a giugno – temperature più alte, minor umidità – e che soltanto i bilanci fatti a fine anno hanno senso.
Ma è vero anche che se la deforestazione del giugno 2019 risulta essere dell’88% in più che quella dell’anno scorso e se quella di luglio addirittura del 212%, è da irresponsabili aspettare dicembre per preoccuparsi mentre arde il bosco necessario a frenare il riscaldamento globale del pianeta, uno scrigno prezioso di biodiversità, nonché una terra in cui vivono delle persone che rischiano di morire insieme agli alberi. Persone indigene, considerate per questo inumane dal presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, secondo definizioni da lui pubblicamente utilizzate (questo governo ha cancellato tutti i piani di tutela della popolazione indigena, azzerato i fondi, dichiarato guerra agli istituti che se ne occupano, una politica molto più aggressiva di quella utilizzata negli anni della dittatura militare) ma pur sempre persone.
Vediamo di capirci qualcosa. Di solito gli incendi iniziano a moltiplicarsi verso settembre e calano alla fine di novembre. Da cosa sono prodotti? Non dalla stagione secca. I poveri biologi brasiliani si stanno sgolando tentando di spiegare al mondo che l’Amazzonia va a fuoco «durante la stagione secca, ma non a causa della stagione secca». Va a fuoco perché c’è una richiesta alta di terreni da coltivare e di pascoli da creare. Va a fuoco perché gli interessi giganteschi dell’agrobusiness, già coccolati da tutti i governi brasiliani (ricordiamo che il Brasile ospita il 65% della foresta amazzonica) inclusi quelli di sinistra di Lula da Silva e Dilma Rousseff, hanno in questo momento le mani completamente libere perché il governo del Brasile, differentemente dai precedenti, non media con loro cercando segretamente di non inimicarseli come finora accaduto, ma ha dato loro luce verde a fare dell’Amazzonia ciò che vogliono. Non si tratta più di una potentissima lobby che riesce a condizionare le politiche di governo perché nessun governo ha intenzione di mettersela completamente contro. Ma di una lobby che è essa stessa potere di governo. Il Planalto è roba loro.
A questo si aggiunge un fenomeno meno imponente, ma forse più pericoloso. Non solo lo sviluppo sostenibile è agli antipodi con gli interessi di chi ha in mano il governo del Brasile oggi, ma il linguaggio smisuratamente aggressivo di Jair Bolsonaro, le sue dichiarazioni riassumibili, ripulite, in una sorta di «chi se ne frega dell’Amazzonia» tolgono ogni freno agli innumerevoli soggetti interessati ad accaparrarsi nuove porzioni di foresta da trasformare in savana per poi poterle utilizzare. Ovvio che per loro il ruolo del Brasile come potenza agricola in grado di esportare quanto più possibile è molto più interessante di quello che ha come polmone del mondo.
Un elemento fondamentale è il tempo. Questo universo, nemmeno troppo sommerso, di persone interessate a far ardere quanta più Amazzonia possibile ha molta fretta. Perché sa che questo momento propizio ai loro interessi non durerà in eterno e quindi bisogna bruciare quanto più bosco possibile prima possibile. Si sentono totalmente spalleggiati e hanno fretta. E ora che vedono l’allarme mondiale, l’interesse europeo, il G7 allertato hanno ancora più fretta.
Cos’ha fatto concretamente Bolsonaro? Poche mosse, tutte devastanti. Ha iniziato via social, al solito, con il contrapporre la difesa del patrimonio amazzonico alla possibilità di ripresa dell’economia brasiliana. Per capire, è fondamentale ricordare che la stragrande maggioranza dei brasiliani si informa esclusivamente via social network, senza contradditorio e senza eterogeneità di fonti. Fatto drammatico che spiega moltissimo del Brasile attuale. Bolsonaro bombarda con dichiarazioni del tipo: «Solo i vegani, gente che mangia solo vegetali, sono preoccupati» oppure «Quando finiranno le materie prime di cosa vivremo? Diventeremo tutti vegani? Cosa mangeremo, vivremo della difesa dell’ambiente che dà da mangiare solo alle Ong? Sono le Ong le responsabili, sono loro ad aver creato ad arte questa finta emergenza».
Non è riuscito a fondere come avrebbe voluto il Ministero dell’agricoltura con quello dell’ambiente, ma ha reso il Ministero dell’ambiente completamente impossibilitato ad attuare politiche che non siano favorevoli alla lobby dell’agrobusiness. Ha nominato ministra dell’Agricoltura Tereza Cristina Dias, il capo della lobby dell’agrobusiness in Parlamento. Ha vietato che vengano individuate aree a rischio per impedire che vengano poi dichiarate aree di protezione ambientale. Lo stesso ha fatto con le porzioni di terra indigena, impedendo di dichiararne di nuove e cercando di smantellare una ad una quelle già esistenti. Non si capisce cosa voglia fare del Fondo Amazzonia, un fondo finanziato soprattutto dalla Norvegia, del quale vorrebbe mantenere i soldi dirigendoli tutti ad altri scopi. Ovviamente la Norvegia non sta a guardare e minaccia di tagliare i finanziamenti, ma ciò non risolve il problema dell’Amazzonia. E non crea problemi a Bolsonaro poco attento, ad esempio, al fatto che, per accordi pregressi, se la deforestazione passa un certo limite gli invii di denaro europeo si bloccano. Negli ultimi dieci anni la Norvegia, la Germania e l’azienda di petrolio Petrobras (con il suo efficiente dipartimento di comunicazione per evitare le accuse di antiecologismo) hanno dato 650 milioni di euro a un centinaio di progetti proposti e gestiti da istituti brasiliani. Nemmeno uno di questi progetti è stato approvato dal governo Bolsonaro che aspetta di capire cosa fare per utilizzare quei soldi in altro modo.
Per completare l’opera il Planalto fa circolare voci sempre più insinuanti sull’infondatezza delle cifre ufficiali (verificabili da qualsiasi foto via satellite: dove cinque anni fa c’era il verde della foresta ora c’è il colore della savana) elaborate dagli stessi istituti brasiliani e ha spalancato le porte all’approvazione di pesticidi nuovi di vario genere, inclusi alcuni contenenti sostanze proibite in Europa. Questo potrebbe creargli problemi teoricamente sul lungo periodo perché il recente accordo di libero commercio tra l’Unione europea e il Mercosur (l’area di libero scambio del Cono Sur costituita da Brasile, Argentina ed Uruguay) include delle norme a protezione dell’ambiente, per esempio chiede che i prodotti importati in Europa dal Sud America non arrivino da zone deforestate di recente. Ma non è detto che il lungo periodo interessi a Bolsonaro più dell’immediato e, soprattutto, non è possibile fidarsi ciecamente della dichiarata provenienza di tutti i prodotti esportati. Nella propaganda interna, l’unica che conta per il governo, Bolsonaro rilancia ai leader europei le accuse con questo argomento che nei social funziona: «Ho sorvolato l’Europa due volte e non ho visto un chilometro quadrato di bosco, si preoccupino dei boschi di casa loro invece di criticare il Brasile».