Il simbolo dell’Italia dei nuovi poveri è diventato un pianista quarantenne, Adriano Urso, apprezzato e applaudito in tanti locali di Roma. Ma l’ultimo ingaggio risaliva alla scorsa estate. Così da novembre Urso lavorava per un servizio di food delivery consegnando il cibo con una vecchia Fiat 750. Il tocco finale di un personaggio dai modi, dall’educazione, dall’abbigliamento ottocenteschi. Proprio l’auto l’ha però tradito in una sera di freddo e di pioggia: Urso si è messo a spingerla finché il suo cuore ha fatto «crac». La morte gli ha procurato quella fama nazionale a lungo inseguita. È finito perfino nei telegiornali, in tal modo ha messo anche i più distratti dinanzi alla nuova realtà di un Paese dove la sopravvivenza si sta trasformando in un’angoscia quotidiana (mentre i politici continuano a litigare).
Vengono colpiti i lavoratori in nero e pure quelli dotati di partita Iva, tuttavia senza un’occupazione stabile, abituati nell’ultimo decennio a cavarsela saltabeccando da un mestiere all’altro. Di conseguenza le file si allungano dinanzi ai centri della Caritas, di Pane quotidiano, del Banco alimentare, delle associazioni clericali e laiche che offrono cibo, vestiti, detersivi, sapone e mascherine chirurgiche. Paradossalmente il grande assente risulta il sindacato, muto e inerte dinanzi al più grande dramma sociale nei 75 anni della Repubblica. Nell’anno dello scatafascio generale, le tre grandi sigle confederate corrono il rischio di essere ricordate per un insensato sciopero generale proclamato contro la pandemia e per la difesa corporativistica delle ricchissime pensioni dei propri vertici.
La percentuale di un tempo dei bisognosi, 70 per centro stranieri, 30 per cento italiani, adesso è in perfetta parità, 50 e 50. Posteggiatori abusivi e pizzaioli africani sono mescolati a colf dell’Est e lavapiatti, a commessi e scaricatori dell’ortomercato, a fattorini e giovani mamme con il passeggino, a ragazzi attaccati al telefonino e silenziose donne con il velo in testa. Gli anziani sono quasi tutti italiani, tengono il capo chino, hanno lo sguardo spento, spesso detentori di una pensione sociale da 400 euro mensili, che li esclude dai sostegni varati dal Governo nell’era Covid. Eppure capita che alla fine della fila qualcuno stenda un tappeto per offrire accendini, cinture, calzini, fazzoletti.
Le testimonianze raccolte dai media danno i brividi: Luigi, 55 anni, faceva l’imbianchino da quando di anni ne aveva 15. Era andata talmente bene da potersi consentire di acquistare un bilocale nella periferia milanese. Però da aprile non lo chiamano a pitturare, dunque ha dato fondo ai pochi risparmi di cui disponeva e adesso è terrorizzato di non poter pagare le rate del mutuo, le bollette di luce e gas. Roberto, 35 anni, faceva il buttafuori in discoteca. Ora vive dalle suore, si sfama in convento, opera da volontario nella distribuzione dei pacchi raccolti dai frati. Sara è ancora formalmente la proprietaria di un negozietto di prodotti biologici ma per nutrire i suoi due bambini ricorre alla carità pubblica. Alessandro, 41 anni, faceva l’artista di strada e dorme in strada.
Il reddito di cittadinanza da 573 euro mensili, la pensione di cittadinanza da 270 euro, il reddito di emergenza da 559 euro, il buono spesa da 300 euro hanno soltanto in minima parte alleviato la crescente indigenza dilagante nel Paese, coinvolgendo poco più di 5 milioni di cittadini. A ogni zona rossa istituita si abbassano saracinesche, che non verranno più rialzate, si perdono impieghi, che non verranno più recuperati. Per il Coronavirus in un anno hanno perso il lavoro circa 800mila persone. Il 40 per cento degli under 35 è tornato ad abitare con i genitori: la famiglia continua a rappresentare la forma di welfare più diffusa nella Penisola.
I numeri d’altronde sono spietati: 6 milioni d’italiani vivono in povertà assoluta (ovvero con meno di 500 euro mensili di reddito), 10 milioni in povertà relativa (con meno di 650 euro mensili di reddito), significa il 27 per cento della popolazione complessiva. Un brusco peggioramento dei dati del 2019, che anzi avevano indicato una diminuzione del rischio povertà, dal 27,3 per cento al 25,6 con il 6,4 per cento delle famiglie in povertà assoluta e l’11,4 in povertà relativa. Tradotto in cifre: 4,6 milioni il primo gruppo, 8,8 milioni il secondo gruppo. La somma fa 13,4 milioni: significa che in poco più di dodici mesi per quasi tre milioni d’italiani si sono spalancate le porte della disperazione. Con un riflesso anche sulla salute dei tanti che non sono nelle condizioni di potersi concedere la minima spesa in farmacia o, come raccontato da una giovane madre di Reggio Calabria, non hanno addirittura i soldi per raggiungere con l’autobus l’ospedale. In un simile quadro alcuni geriatri hanno pronosticato un drastico abbassamento dell’età media, che ultimamente aveva raggiunto la vetta di 83 anni per le donne e di 79 anni e mezzo per gli uomini.
La situazione più grave tocca ovviamente il Meridione. Il miraggio del lavoro si è spesso estrinsecato in occupazioni sottopagate, fuori da ogni tutela, dipendenti dal ghiribizzo del titolare. Carmela è una cinquantenne catanese licenziata da un negozio di abbigliamento dopo 15 anni di lavoro a 500 euro al mese senza tredicesima, assistenza sanitaria, contributi pensionistici e infine senza liquidazione. Casi come questo se ne verificano a bizzeffe ogni giorno. Spiegano lo straripante successo nelle elezioni del 2018 del M5S con la promessa del reddito di cittadinanza, che per altro è risultato una misura parziale – 3 milioni i beneficiati – non poche volte finita nelle tasche sbagliate. All’orizzonte purtroppo si addensa il peggio: che cosa accadrà da marzo in avanti con il ripristino dei licenziamenti?
La disperazione degli italiani
A causa della pandemia nella vicina Penisola quasi tre milioni di persone sono cadute in miseria. Molti si sfamano nei centri di aiuto. C’è chi muore consegnando cibo e chi dorme per strada
/ 25.01.2021
di Alfio Caruso
di Alfio Caruso