È stata la trasferta asiatica di tutte le pacificazioni. Donald Trump a Osaka in Giappone ha usato il G20 per allentare la tensione commerciale con la Cina di Xi Jinping. Sul confine tra le due Coree ha ripreso i contatti con Kim Jong-un, promettendo una ripresa dei negoziati. Chi lo aveva descritto come un falco, dove sbagliava? Che cosa dovremmo capire, «estrapolando» da questa visita in Estremo Oriente, sulla politica estera americana da qui alle elezioni?
L’incontro più atteso di tutto il G20, il summit bilaterale fra Trump e Xi, si è concluso con una fumata bianca. Ma di quale accordo si tratta? «Riprendiamo i negoziati – ha spiegato Trump – e per adesso non ci saranno i dazi aggiuntivi su 350 miliardi di dollari d’importazioni dalla Cina. Loro cominciano subito ad aumentare gli acquisti di nostri prodotti agricoli. I benefici per i nostri agricoltori saranno formidabili e quasi da subito». Fin qui lo scambio di favori è limitato: gli Stati Uniti infatti non aboliscono quei dazi già in vigore, che colpiscono con aliquote dal 10% al 25% un ventaglio di prodotti made in China del valore di 200 miliardi annui. Si limitano a non passare alla fase successiva dell’escalation, che avrebbe allargato i dazi fino a tassare la quasi totalità delle importazioni dalla Cina. In quanto a Pechino, si limiterebbe per il momento a riaprire le porte alle importazioni di soya, cereali, dal «granaio» del Midwest.
Trump vi aggiunge una schiarita parziale su un altro dossier delicato, quello del gigante cinese delle telecom Huawei. Su quest’azienda, fiore all’occhiello dell’alta tecnologia cinese, si sono abbattute nei mesi scorsi due forme di embargo. Da una parte gli Stati Uniti non vogliono acquistare infrastrutture Huawei per la telefonia di quinta generazione (5G, il digitale iper-veloce che spiana la strada al cosiddetto «Internet delle cose»); e premono su tutti gli alleati dall’Europa al Giappone all’Australia perché facciano lo stesso, onde non aprire varchi allo spionaggio di Pechino. D’altro lato, più di recente, Washington ha vietato alle aziende americane che producono semiconduttori di venderli a Huawei, mettendo in difficoltà l’azienda cinese che continua a usare tanta componentistica americana nei suoi smartphone.
C’è poi la vicenda della direttrice finanziaria di Huawei arrestata in Canada su richiesta degli americani (l’accusa è di violazione delle sanzioni contro l’Iran), la quale rimane agli arresti domiciliari mentre procede l’iter per la sua estradizione. Di tutta la partita Huawei, Trump ha deciso di mollare sul secondo embargo, anche per assecondare le pressioni della Silicon Valley dove hanno sede alcuni colossi dei semiconduttori elettronici. È il grande tema della sfida Usa-Cina per la supremazia nelle tecnologie avanzate, che ha una dimensione geopolitica e strategica, nel lungo periodo ben più rilevante degli squilibri commerciali.
La tregua è una buona notizia per il mondo intero: la crescita globale sta rallentando e molti esperti attribuiscono questa frenata proprio al protezionismo. Però è presto per stappare lo champagne. Anche al G20 precedente, che si era tenuto a Buenos Aires all’inizio di dicembre, una cena tra le delegazioni americana e cinese aveva portato a un’apparente schiarita. Poi l’accordo si era arenato su questioni sostanziali. Il governo cinese ha ritirato dal tavolo del negoziato molte concessioni: in particolare la promessa di riformare le sue leggi in materia di tutela della proprietà intellettuale. Una delle lamentele annose delle multinazionali americane – ed europee – riguarda proprio il saccheggio sistematico di know how, perpetrato con mezzi legali e illegali. L’irrigidimento di Xi su questo punto è stato decisivo per far scattare la minaccia di nuovi dazi. Ora la palla passa ai veri negoziatori. Sul fronte americano ci sono dei falchi come Peter Navarro e Robert Lighthizer, ma come si è visto negli ultimi mesi anche la delegazione cinese gioca duro.
Il G20 è stato dominato dai sovranisti e Trump si sentiva a casa: con Vladimir Putin, Narendra Modi, Jair Bolsonaro, il feeling è evidente. I risultati concreti sono assenti, nella nuova globalizzazione «a somma zero» in cui ciascuno gioca per sé. Ma ad essere isolati o impotenti sono i vecchi leader affezionati al multilateralismo, come Angela Merkel ed Emmanuel Macron. L’apice è stato la «rimpatriata» con Putin, dopo il vertice a Helsinki un anno fa. Le prove generali per rilanciare un idillio a due – più volte tentato, più volte affondato – sono esplicite. «È un grande onore – ha detto Trump – essere con lui, abbiamo un’ottima relazione, da cui nasceranno cose molto positive». Il leader russo gli ha restituito la cortesia, in un’intervista al «Financial Times» ha detto di Trump: «Ha talento e sa cosa i suoi elettori si aspettano da lui». Nella stessa intervista Putin dichiara quel che pensa dei valori dell’Occidente: «La liberaldemocrazia è entrata in conflitto con gli interessi della maggioranza della popolazione». Ma l’intesa con Putin non produce finora nulla di concreto: i dossier che dividono le due superpotenze rimangono irrisolti, dal trattato sulle armi nucleari all’Ucraina, dall’Iran alla Siria. La carrellata degli uomini forti che piacciono a Trump prosegue con il turco Erodgan e con il principe saudita Mohammed bin Salman. Prevalgono gli autocrati.
Ed è con un iper-autocrate che è nato il colpo di scena conclusivo, al termine della trasferta asiatica di Trump: l’incontro con Kim «oltrepassando» a piedi la frontiera maledetta fra le due Coree. A farlo sono stati i leader di due nazioni formalmente tuttora in guerra, da 69 anni. Stanno attraversando una linea rossa tracciata dalle parti del 38esimo parallelo, un confine dalla memoria insanguinata: 1,2 milioni di morti. Trump in quell’istante entrava nella grande Storia: è stato il primo presidente degli Stati Uniti a metter piede sul territorio della Corea del Nord. Con la dittatura comunista di Pyongyang gli Stati Uniti non solo non hanno relazioni diplomatiche, ma neppure un formale trattato di pace che chiuda ufficialmente il conflitto del 1950-’53. Il confine oltrepassato da Trump è lungo la zona chiamata DMZ, acronimo di «de-militarized zone». Tutt’altro che smilitarizzata, lì attorno la concentrazione di arsenali e di truppe è tale da farne il potenziale detonatore di una terza guerra mondiale. In quell’area infatti si fronteggiano le due Coree con i propri alleati e protettori, le superpotenze americana e cinese. Migliaia di missili puntati. Ogive nucleari. Lo storico attraversamento della linea rossa maledetta era nato quasi per scherzo, appena 24 ore prima. Un gesto a effetto, nato dall’istinto di uno showman.
Trump aveva in programma da tempo la visita di Stato in Corea del Sud subito dopo il G20 di Osaka. La mattina stessa in cui il summit si chiudeva, da Osaka il presidente inviava un tweet a Kim, come fosse la cosa più normale del mondo: io sto arrivando a visitare il confine, perché non ci vediamo, per un saluto e una stretta di mano? Anche Kim ha il senso dello spettacolo. Il dittatore sanguinario, ultimo rampollo di una monarchia rossa specializzata nell’affamare, terrorizzare e torturare il proprio popolo, vede la sua immagine e la sua statura internazionale nobilitate. Capisce il gioco e ci sta. Il saldo netto è questo: riprendono i negoziati sulla denuclearizzazione, che erano partiti a Singapore il 12 giugno dell’anno scorso ma si erano incagliati malamente in un secondo vertice ad Hanoi nel febbraio di quest’anno.
I seguaci di Trump torneranno a sostenere che merita il Nobel della pace, almeno quanto Barack Obama. Al di là del simbolismo della tranquilla passeggiata oltreconfine, va dato a Trump questo merito: da quando ha capovolto l’atteggiamento verso Kim passando dagli insulti («folle ometto-razzo») e dalle minacce («fuoco e distruzione») alle lusinghe e ai summit bilaterali, i test atomici e missilistici tacciono. Sotto le presidenze Obama e Bush, quell’area del mondo era il focolaio di tensioni; i test di Pyongyang facevano gravare una minaccia su due paesi alleati dell’America (Corea del Sud e Giappone), sulla base militare Usa di Guam, perfino su alcune città della West Coast vista la gittata dei missili balistici di ultima generazione sperimentati da Kim. Il solo fatto che i test siano fermi da quando è sbocciata la luna di miele tra i due leader, è un risultato della eccentrica, imprevedibile diplomazia di Trump.
Il vasto partito degli oppositori di Trump e degli scettici, punta sulle tante lacune e opacità di questo disgelo. Ogni volta che gli americani hanno tentato di ottenere impegni concreti sulla denuclearizzazione, un calendario del disarmo, o anche soltanto l’ubicazione dei bunker atomici, Kim si è tirato indietro. Non c’è sul tavolo di questo negoziato nessuna richiesta sui diritti umani: la Corea del Nord rimane un grande gulag, ora con la legittimazione dell’amico americano. Ma altri presidenti che perseguivano il «regime change» (Bush in Iraq) o l’esportazione della libertà (Obama prima versione sulle Primavere arabe) non hanno ottenuto risultati migliori.
Una contraddizione stridente è con l’atteggiamento di Trump verso gli ayatollah iraniani, dove la via prescelta è l’escalation delle sanzioni, anche a costo di avvelenare ulteriormente i rapporti con l’Europa. La partita del Golfo Persico è complicata dal fatto che lì Trump si fida ciecamente di Israele e Arabia saudita, fautori della linea dura con Teheran. Però quando Trump ha dato l’altolà al Pentagono dieci minuti prima che partisse un attacco punitivo contro l’Iran, forse ha svelato un suo sogno: ripetere altrove la diplomazia dei colpi di scena. È l’altra faccia di America First. L’isolazionismo radicale detesta il ruolo di gendarme del mondo.