La diga della discordia

La Grande Diga della Rinascita Etiopica è quasi completata e le tensioni fra Egitto e Etiopia crescono, poiché il Cairo teme di non avere più abbastanza acqua per i suoi bisogni
/ 28.06.2021
di Pietro Veronese

Quando la si avvicina dal cielo, tremolante nel calore che si sprigiona dal suolo rovente della pianura, la Grande Diga della Rinascita Etiopica, o GERD nella sigla in inglese, non sembra un oggetto di questo mondo. L’enorme manufatto appare fuori contesto e fuori proporzione con la natura che lo circonda. Se non fosse un aggettivo proibito, a causa delle tensioni che la sua stessa esistenza ha generato tra l’Etiopia e l’Egitto, verrebbe da definirla faraonica. E davvero, la diga fa venire in mente le Piramidi, 2500 chilometri più a nord, per quell’aspetto alieno, fantascientifico, che sembra quasi il frutto di una civiltà diversa e superiore a quella umana. È il più grande sbarramento fluviale d’Africa, di gran lunga; il settimo al mondo.

Ma no, sono proprio uomini quelle formiche che si vedono andare e venire in più punti dello smisurato cantiere, ormai quasi completato. E umano è il sogno visionario, concepito per la prima volta oltre mezzo secolo fa, che ne è all’origine e la cui realizzazione è ormai imminente. Questione di settimane, e le prime due delle sedici smisurate turbine alloggiate ai lati della muraglia di cemento entreranno in funzione, generando elettricità. Nel preciso momento in cui questo avverrà, tuttavia, il sogno rischia di tramutarsi in un incubo. I Paesi attraverso i quali il Nilo scorre a valle dell’Etiopia – Sudan ed Egitto – sono da anni in allarme. Sentono vivo il pericolo che la diga possa perturbare l’afflusso di acqua e minacciare la loro stessa sopravvivenza. Fanno molta fatica ad accettare l’idea che qualcuno abbia in pugno il rubinetto che regola la loro esistenza, alimenta la loro agricoltura e disseta decine di milioni di persone all’interno dei loro confini. Da tre regimi a questa parte – già ai tempi di Mubarak, poi con Morsi e adesso sotto al Sisi – l’Egitto in particolare ha fatto sapere senza possibilità di dubbio che considera la diga GERD un potenziale casus belli. L’ultima volta che ne ha parlato, circa due mesi fa, al Sisi è stato esplicito. «Nessuno prenda una goccia d’acqua egiziana», ha ammonito: «Chi lo farà, causerà nella regione un’instabilità inimmaginabile». A quanto scrivono i corrispondenti esteri dal Cairo, l’uomo della strada nella megalopoli egiziana è convinto che la guerra per la diga ci sarà. L’effigie di Anubi, divinità egizia della morte, dal volto di sciacallo, ha ampio corso sui social media egiziani, accompagnata da slogan che invitano a «liberare il Nilo» se il livello delle sue acque dovesse abbassarsi. Attraverso le capitali nordafricane ed europee, le voci di un imminente attacco egiziano si sono susseguite nei tempi recenti, debitamente riferite dai servizi d’informazione, senza trovare per fortuna conferma nei fatti. Almeno finora.

Il fiume più lungo del mondo ha una doppia origine. Nilo Bianco e Nilo Azzurro si incontrano solo nella capitale sudanese, Khartoum, da dove scorrono maestosamente in un unico grande corso d’acqua fino al Mediterraneo. Il Nilo Bianco ha le sue fonti molto più a sud, tra i ruscelli di montagna di Ruanda e Burundi, lungo il remoto spartiacque che lo divide dal bacino del fiume Congo. Poiché questo è il ramo più lungo, viene considerato il Nilo vero e proprio. Ma prima di raggiungere Khartoum, esso si perde nelle sconfinate paludi del Sudd, dove la sua acqua si espande, s’infiacchisce e quasi ristagna. Senza l’apporto vitale del Nilo Azzurro, che scende impetuoso dall’altopiano etiopico, più giovane, possente, e con una quantità d’acqua maggiore, non troverebbe mai la forza di arrivare fino al mare.

È dunque sul Nilo Azzurro, poco prima che il fiume attraversi il confine sudanese, che l’Etiopia ha costruito la sua diga. Il sito era già stato individuato ai tempi del Negus, negli anni Cinquanta. Era l’epoca in cui l’Egitto di Nasser aveva avviato il grande progetto della diga di Assuan e l’imperatore etiopico – uomo complesso, strenuo difensore del suo potere feudale ma anche appassionato di modernità – ambiva a non essere da meno. Una diga significava elettricità, e l’elettricità sviluppo. Ma occorreva denaro, molto denaro e soprattutto buoni rapporti di fiducia con i Paesi a valle della diga. A differenza infatti della celebre favola di Esopo, in cui a monte c’è il lupo e giù in basso il più debole agnello, la nazione egiziana, che controlla l’ultimo tratto di fiume prima del mare, è di gran lunga la più forte dal punto di vista militare. Il consenso dei suoi leader è indispensabile a chiunque intenda alterare il flusso dell’acqua del Nilo.

La visione imperiale fu cancellata dal colpo di Stato che depose e poi uccise Hailé Selassié. Il progetto fu accantonato. Abbattuto a sua volta il regime militar-comunista succeduto a quello imperiale, sul finire del secolo ventesimo si ricominciò a parlare della diga, che presto divenne un grande obiettivo patriottico. Il suo costo, almeno cinque miliardi di dollari, andava ben oltre le possibilità dell’Etiopia. Per finanziare l’impresa fu lanciato un prestito nazionale, al quale per i comuni cittadini era praticamente impossibile sottrarsi. La realizzazione fu affidata all’impresa italiana Salini (poi Salini Impregilo e oggi Webuild S.p.A.). All’inizio, l’Etiopia si propose di adottare un atteggiamento trasparente, invitando i governi di Sudan ed Egitto a inviare propri tecnici che assistessero alla fase di progettazione e poi di costruzione dell’immane sbarramento idroelettrico. Ma presto le cose cominciarono ad andare male e oggi il dialogo è totalmente interrotto.

L’impresa non era semplice. Il Nilo Azzurro garantisce da solo il 97 per cento del fabbisogno idrico egiziano: è una questione di vita o di morte, con in gioco la sorte di decine di milioni di individui. Qualunque ipotesi che preveda una diminuzione del suo flusso disegna scenari apocalittici: carestie, migrazioni di massa, un’ondata destabilizzatrice destinata fatalmente a colpire anche l’Europa. Negli ultimi anni, la questione è stata resa maledettamente complicata dai successivi passaggi di regime in tutti e tre i Paesi coinvolti, con i conseguenti sommovimenti geopolitici.

In Egitto, dopo la parentesi democratica con la presidenza Morsi, sono tornati al potere i militari, guidati da al Sisi. In Sudan, viceversa, al regime di al Bashir ha posto fine due anni fa una rivolta popolare che ha riportato una ventata di libertà, ma anche avviato il Paese in una lunga e incerta transizione. Il Sudan si conferma il più fragile dei tre contendenti: ma nella crisi della diga GERD questo significa un allineamento pieno con la posizione egiziana, mentre in tempi migliori i governanti sudanesi avrebbe potuto svolgere un ruolo più positivo, per non dire di mediazione.

Resta l’Etiopia, il principale responsabile, che al momento è anche quello più nei guai. Il suo primo ministro Abiy Ahmed, andato al potere nel 2018 come uomo del cambiamento, subito corso al Cairo a stringere la mano ad al Sisi in un gesto d’amicizia e buona volontà, insignito l’anno dopo del Nobel per la Pace, si ritrova adesso infognato in una conflitto armato fratricida contro la provincia del Tigray e accusato di orribili crimini di guerra. Il numero dei suoi amici internazionali si è molto assottigliato, il consenso interno infragilito. Ma proprio per questo Abiy Ahmed sembra impossibilitato a imporre una battuta d’arresto all’avvio della diga. Un gesto che potrebbe tradire una debolezza mortale. Il suo ministro dell’Energia ha annunciato che, con l’arrivo della stagione delle piogge, il riempimento del lago artificiale alle spalle dell’impianto è ripreso. In luglio dovrebbe essere abbastanza pieno da consentire l’accensione delle prime due turbine. Così la «linea rossa» di cui tante volte ha parlato il presidente egiziano sarà varcata.