La Polonia, fino a ieri paese modello della «Nuova Europa», rischia di incorrere in pesanti sanzioni comunitarie. L’annuncio di aver attivato l’articolo 7 del Trattato di Lisbona, da parte del vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans, apre le ostilità e chiude mesi di fallimentare diplomazia Bruxelles-Varsavia. O meglio Berlino/Parigi-Varsavia, visto che le due maggiori potenze sono state in prima linea nel denunciare la svolta autoritaria e liberticida del governo polacco, di fatto diretto dal capo del Partito Diritto e giustizia, Jarosław Kaczyński.
In sostanza, la causa scatenante della procedura avviata dalla Commissione è la messa sotto tutela del potere giudiziario da parte di quello politico: Una potente incrinatura nel sistema della divisione dei poteri classico nelle liberaldemocrazie e professato – non sempre praticato – da tutti i paesi membri dell’Ue.
Di qui all’imposizione di sanzioni, che potrebbero in teoria giungere fino all’esclusione del diritto di voto della Polonia negli organismi comunitari – il che, presupponendo l’unanimità, è impossibile stante l’indisponibilità di alcuni paesi, Ungheria in testa – a giungere fino a questo punto, molto ne corre. Già il 9 gennaio il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, incontrerà il neopremier polacco Mateusz Morawiecki, nel tentativo estremo di ricondurlo all’ortodossia comunitaria. Per ora i margini di mediazione sono ristretti. Lo stesso presidente Andrzej Duda è intervenuto per difendere le leggi che a Bruxelles appaiono liberticide, presentandole come «approfondimento della democrazia», giacché «i giudici non si autogoverneranno più. Non sono una casta straordinaria, sono servitori del popolo polacco».
Al di là della disputa specifica, in gioco è molto di più dei poteri della magistratura polacca. Il segnale inviato da Bruxelles e dalla gran parte dei paesi comunitari, solidali con l’approccio della Commissione, vale non solo per la Polonia, ma almeno per gli altri paesi del Gruppo di Visegrád – Cechia, Slovacchia e soprattutto Ungheria. I quali, fra l’altro, hanno mostrato scarsa o nulla disponibilità a un approccio solidale e concordato alla questione migratoria. Facendone una questione identitaria: quei paesi – e con loro altri Stati membri dell’Est – sentono minacciata l’identità bianca e cristiana di cui si ergono a campioni, contro il multiculturalismo degli euroccidentali. In sintonia, invece, con Trump e – paradosso dei paradossi – con la stessa Russia di Putin, che pure considerano minaccia permanente ed esistenziale alla loro sicurezza. Inoltre, la Romania rischia presto di finire all’angolo insieme alla Polonia, a causa del suo nuovo approccio, analogo a quello di Varsavia, al potere giudiziario.
Le opposizioni polacca e romena sono scese in piazza per manifestare contro le leggi «liberticide», ma il loro impatto è relativo. In società fortemente traumatizzate dagli interventi dall’esterno e appena emancipate dall’impero russo, lo stigma antipatriottico di chi sostiene le posizioni dell’«impero europeo» pesa alquanto. Lo scontro interno è quindi insieme frontale e ineguale, a tutto vantaggio dei governi in carica.
Nel frattempo la tensione fra Russia e Nato/Ue resta alta. Chi immaginava un compromesso Trump-Putin sull’Ucraina resta disilluso. Gli apparati americani, Pentagono e Cia in testa, hanno sabotato e continueranno a impedire ogni intesa con la Russia. La guerra nell’Ucraina orientale non accenna a spegnersi. Siamo molto lontani dal «conflitto congelato». Anche perché il controllo di Putin sui ribelli del Donbas è relativo.
Lo scontro interno allo spazio Ue (ma anche atlantico) gioca a favore della Russia. Anziché confrontarsi con un blocco unico, Putin può far leva sulle differenze interne al campo avversario. Soprattutto, occorre considerare che la Polonia è il capofila dell’Europa russofoba. E che sta puntano le sue carte strategiche sul rafforzamento della solidarietà fra i paesi di confine con la Federazione Russa, dalla Svezia (di fatto atlantica, di forma neutrale) alla Romania. Con l’esplicito sostegno degli Stati Uniti.
In questo campo ha preso rilievo negli ultimi due anni il progetto Trimarium, asse di collegamento fra Mar Baltico, Mar Nero e Mare Adriatico, che coinvolge dodici paesi. In apparenza infrastrutturale, di fatto strategico. Si tratta di collegare il fronte nord-sud, prima linea di un possibile conflitto con la Russia. Quello che Germania, Francia, Italia e paesi dell’Europa occidentale in genere intendono evitare a qualsiasi costo, considerando che potrebbe finire fuori controllo, fino ad assumere un’intensità tale da coinvolgere gli arsenali nucleari.
Comunque si risolva, la disputa interna all’Unione Europea segna un punto a favore di Putin in questa partita. E ci ricorda che il processo di integrazione europeo è finito da un pezzo. Accontentiamoci di gestirne, con prudenza, la meccanica disintegrativa, da cui molto probabilmente sortiranno diverse Europe, lontane per cultura politica, carattere istituzionale, postura strategica.