Evocato dalla scelta degli elettori italiani, un nuovo spettro s’aggira per l’Europa. Un eventuale governo formato dai due vincitori, il grillino Luigi Di Maio e il leghista Matteo Salvini, potrebbe imprimere una brusca accelerazione alla contro-Europa sovranista, oscillante fra i decisionismi contrapposti del russo Vladimir Putin e dell’americano Donald Trump, animatrice del modello di un’Unione Europea rinchiusa in se stessa, che sbarra le frontiere ai flussi migratori, che punta alla revisione dei trattati e all’allentamento delle normative e dei vincoli di bilancio. Si verifica una delle tante bizzarrie della storia: proprio il Paese che vide nascere fra gli esuli antifascisti di Ventotene il sogno degli Stati Uniti d’Europa volterebbe le spalle al progetto federalista ripiegando su un’Unione di basso profilo, ridotta a semplice concerto di governi gelosi delle antiche prerogative, non più disposti a cedere sovranità alle istituzioni comuni.
Il Gruppo di Visegrad, oggi denominato con la sigla V4, diventerebbe un V5 e raddoppiando il suo peso demografico opporrebbe all’asse franco-tedesco, attuale motore dell’Unione, un blocco di 125 milioni di europei. D’ora in avanti Roma, dichiara Giorgia Meloni alleata della Lega con i suoi Fratelli d’Italia, guiderà il fronte sovranista. Non a caso nei giorni della campagna elettorale andò in devoto pellegrinaggio a Budapest, dove il governo di Viktor Orban ha collocato l’Ungheria in primissima fila nell’avversione alle politiche di Bruxelles, a cominciare dall’accoglienza e dalla ricollocazione dei migranti. Posizione condivisa dagli altri componenti del V4, Polonia, Cechia e Slovacchia: ed è abbastanza paradossale che a questo gruppo si avvicini l’Italia, visto che proprio in Italia si trova la maggior parte dei migranti che si dovrebbero ridistribuire negli altri paesi dell’Unione, e dunque se non si ridistribuiscono restano dove sono. Salvini ha promesso che una volta insediato al governo ne espellerà seicentomila e bloccherà gli sbarchi: ma è molto più facile dirlo che farlo.
La deriva di Roma verso Visegrad distaccherebbe il terzo grande dal nucleo trainante dell’Unione. Ancora qualche settimana fa uno scontro diplomatico ha opposto il governo Gentiloni e il V4. Il gruppo aveva offerto un contributo di 35 milioni di euro per contenere le migrazioni, ma al tempo stesso aveva ribadito la sua posizione: l’Italia chiuda i suoi porti all’«invasione» e quanto alle ricollocazioni non se ne parla nemmeno. In pratica si chiede che l’Italia e gli altri paesi di primo approdo, come la Spagna e la Grecia, se la sbrighino con l’aiuto finanziario europeo ma senza condividere il carico della massa di migranti presente sui loro territori. Gentiloni aveva risposto che non accettava lezioni da Visegrad, una replica definita «arrogante» nelle quattro capitali. Ora il governo scaturito dal voto del 4 marzo potrebbe annullare la distanza fra Roma da una parte, Varsavia, Budapest, Praga e Bratislava dall’altra. Parallelamente il cambio della guardia a Palazzo Chigi potrebbe scavare un fossato fra Roma e Bruxelles, fra Roma e l’asse Berlino-Parigi.
Se si farà un governo Cinquestelle-Centrodestra, o Cinquestelle-Lega come vorrebbero i grillini che escludono la partecipazione della berlusconiana Forza Italia e vogliono trattare solo con Salvini, potrebbero verificarsi altri squilibri nell’approccio dell’Unione ai temi internazionali. Nei giorni scorsi il governo italiano ha partecipato all’iniziativa dei paesi occidentali contro la Russia in seguito al caso della spia avvelenata in Gran Bretagna dai servizi segreti del Cremlino. Ma l’espulsione di due diplomatici russi decisa dal governo di Roma è stata immediatamente condannata dal capo della Lega. Salvini ha rivolto a Gentiloni una doppia critica: la misura è sbagliata, e in ogni caso un governo dimissionario e prossimo alla scadenza non aveva l’autorità per adottarla. Il primo rilievo attiene alla visione di politica estera, vicina alle posizioni di Putin e dunque avversa a sanzioni e rappresaglie anti-russe, mentre il secondo s’innesta sulle schermaglie post-elettorali in vista della formazione del nuovo esecutivo.
In questo caso il putinismo latente nelle forze anti-sistema d’Europa ha avuto la meglio sull’altra pulsione tipica di questi movimenti: quella che vede nel presidente Trump un campione del contrasto alla sfida migratoria e della difesa degli interessi nazionali. Anche qui si sfiora la contraddizione, visto che questa difesa si esercita attraverso politiche protezionistiche che danneggiano tutti i partner commerciali. È un dato di fatto: chi alza barriere finisce inevitabilmente con l’isolarsi anche da chi gli è ideologicamente vicino, mentre chi sfida la globalizzazione rischia di regredire sconfitto dal mercato. La pratica gestione della cosa pubblica costringe spesso a ridimensionare le pretese che hanno favorito la scalata al potere: per esempio i vincitori delle elezioni italiane sembrano avere accantonato il proposito di sottoporre a referendum la permanenza nella zona euro.
Gli slogan urlati in campagna elettorale devono fare i conti non solo con la limitata disponibilità di risorse ma anche, quando nessuno ha la maggioranza, con la necessità di concordare programmi diversi. Uniti dal furore anti-europeo, leghisti e grillini hanno propositi difficilmente cumulabili in materia di politica fiscale e sociale. Mentre i primi accarezzano, con il resto del Centrodestra, l’idea di una flat tax a quota unificata per dare slancio all’economia imprenditoriale, i secondi propongono il reddito di cittadinanza, una retribuzione minima indipendente dall’occupazione. Evidenti le radici geografiche di queste scelte: i leghisti pensano al Nord produttivo, i grillini al Sud della disoccupazione di massa. È quanto meno problematico appaiare i due costosissimi provvedimenti, sia pure violando i vincoli di bilancio concordati in sede di Unione europea.
Intanto Di Maio e Salvini rischiano di far saltare il tavolo bisticciando sul veto grillino a Berlusconi e su chi di loro sarà presidente del consiglio: se non superano queste divergenze sarà necessario, stante l’indisponibilità della terza forza, il Partito democratico che dopo la sconfitta ha scelto l’opposizione, richiamare gli italiani al voto. I due vincitori devono farsene una ragione: gli elettori li hanno premiati ma senza consegnare lo scettro a uno dei due. Cercheranno di mettersi d’accordo e non sarà affatto facile, mentre l’Europa è in ansiosa attesa degli eventi.