Visto da Mosca e da Pechino il 2024 è un anno ricco di opportunità. Xi Jinping e Vladimir Putin già pregustano lo spettacolo di un’elezione americana distruttiva, in tutti i sensi. Stando alla situazione attuale – e quindi fatte salve le infinite sorprese che possono intervenire – la prima superpotenza e principale economia mondiale si avvia verso un duello tra due ottuagenari, ambedue sfiduciati da una maggioranza di elettori, con enormi problemi di credibilità. Il dibattito elettorale sprofonderà verso nuovi abissi di faziosità, da ambo le parti. Uno dei due contendenti, Donald Trump (nella foto a destra), è inseguito dalla giustizia del suo Paese. Ma poiché i sondaggi dicono che la sua rielezione non può essere esclusa, tra i godimenti di Xi e Putin c’è la prospettiva di un indebolimento delle alleanze americane nel mondo, viste le posizioni isolazioniste e anti-Ucraina del candidato repubblicano. Si può aggiungere che perfino nel caso di una rielezione di Joe Biden (nell’immagine in basso), le modalità con cui sarebbe sconfitto Trump rendono probabile che la democrazia americana continui a soffrire.
Questo impone di esaminare la questione giudiziaria con onestà. Chi considera l’eventuale Trump 2 come una sciagura, non deve però cedere alla tentazione del fine che «giustifica i mezzi», accettando qualsiasi modo per sbarrargli la strada della Casa Bianca. Ora è doveroso riconoscere che la sinistra americana non è riuscita a intaccare seriamente i consensi di cui Trump gode in una parte consistente della Nazione. Descrivere quella parte di America come un ammasso di trogloditi, ignoranti, fascisti e razzisti, alimenta il senso di superiorità della sinistra americana ma non sposta di un millimetro la situazione. A meno di togliere il diritto di voto a chi non passa gli esami del politicamente corretto, la questione del consenso non può essere ignorata in una democrazia.
Non avendo spostato in modo rilevante gli equilibri politici del Paese reale, il Partito democratico per adesso sta cercando di eliminare Trump per via giudiziaria. Anche qui la narrazione può imboccare due strade. La strada prevalente, praticata da molti media apertamente militanti, è quella del godimento per l’accumularsi di nuove incriminazioni e l’addensarsi di un calendario di processi. Se ne ricava da un lato la prova che Trump è un delinquente da assicurare alla giustizia, dall’altro la fiducia che prima o poi un numero sufficiente di elettori volterà le spalle a un criminale. Sul primo punto: ancora dobbiamo arrivare a una condanna definitiva, e il calendario giudiziario lascia perplessi. Sul secondo: se «x» accuse non hanno alienato la base di Trump, non si vede perché dovrebbero riuscirci «x+1» o «x+2» o «x+3».
Sulla scorciatoia giudiziaria per fare fuori Trump, e sulle sue conseguenze reali, trovo una buona sintesi in un’analisi del giurista Jack Goldsmith sul «New York Times». Goldsmith è docente di diritto a Harvard. Ha anche lavorato ai vertici della giustizia americana durante la presidenza di George W. Bush. È un repubblicano moderato e risolutamente anti-trumpiano. Tuttavia vede con lucidità il pericolo di una strategia che punta a eliminare Trump con mezzi giudiziari. Il suo pensiero si riassume in questa frase: «Le azioni giudiziarie contro di lui, per quanto possano essere giustificate, riflettono una scelta tragica che aggraverà i danni alla Nazione già inflitti dalle trasgressioni di Trump». Se al termine di queste istruttorie non si arriva a una condanna definitiva, sostiene, «sarà un disastro storico», soprattutto se i processi si concludono (senza condanna) dopo il voto. La base repubblicana avrà le prove che si è trattato di una montatura giudiziaria orchestrata per influenzare le elezioni. Ma anche se si arriva ad una condanna, prima o dopo le elezioni, secondo Goldsmith «i costi per la giustizia e per il sistema politico saranno elevati».
Per cominciare, ricorda il giurista di Harvard, c’è una realtà innegabile: queste incriminazioni arrivano per iniziativa di un Dipartimento di giustizia agli ordini di Biden, in una fase in cui Trump è ampiamente in testa alla corsa per la nomination repubblicana (almeno nei sondaggi, visto che le primarie cominceranno solo a gennaio) ed è alla pari con il presidente in carica nelle proiezioni su una sfida tra questi due duellanti. Questa situazione già di per sé si presta al sospetto di una giustizia di parte. È aggravata dalla scelta dei tempi. La terribile aggressione al Campidoglio è del gennaio 2021, perché si è aspettato finora a incriminare Trump per il suo ruolo nel fomentare l’assalto? Due anni e mezzo sono anomali per la giustizia americana. Guarda caso, i tempi dell’incriminazione sembrano calcolati per finire a ridosso della campagna elettorale. Proprio come l’inchiesta originale sul cosiddetto Russiagate (poi finita in un flop totale) fu avviata dall’Amministrazione Obama contro Trump in modo da andare a sovrapporsi con la campagna elettorale del 2016.
A tutti questi sospetti si aggiunge il comportamento altamente contestabile dello stesso Dipartimento di giustizia nelle indagini che riguardano il figlio di Biden, Hunter. Abbondano i segnali che Hunter Biden abbia ricevuto un trattamento di favore nelle indagini sui suoi traffici finanziari, conflitti d’interessi e reati fiscali. I media repubblicani hanno buon gioco a descrivere le gesta di questo individuo che gira il mondo usando il nome del padre, prima vicepresidente e ora presidente, per procacciarsi affari di dubbia legalità; sempre difeso e protetto dal vecchio Joe.
Questo, osserva Goldsmith, «è il contesto dentro il quale una larga parte della Nazione giudicherà la legittimità dell’istruttoria avviata dal Dipartimento di giustizia contro Trump per frode elettorale». Il risultato secondo lui è che «il Dipartimento di giustizia emergerà da questa istruttoria irrimediabilmente macchiato come un’istituzione politicizzata agli occhi di un bel pezzo d’America». Le conseguenze si faranno sentire ben al di là della credibilità di questo dicastero, investiranno il sistema politico e lo Stato di diritto. «Ispireranno – scrive Goldsmith – rappresaglie sempre più aggressive sotto forma di successive indagini del Congresso sulle azioni dei presidenti e sul Governo del partito opposto (…) Verrà esasperata la criminalizzazione della politica». La conclusione di Goldsmith è amara, ancorché equilibrata. «Nulla di tutto ciò assolve Trump, che in ultima istanza è responsabile per questo immane disordine. La questione difficile è se riparare le sue azioni riprovevoli attraverso la giustizia penale valga il prezzo enorme che pagherà la Nazione».
Neppure i democratici riescono veramente a eccitarsi davanti ad ogni nuova offensiva dei magistrati contro l’ex presidente. Anche se le due ultime, a rigore, focalizzandosi sul suo ruolo nell’assalto al Campidoglio e sul suo tentativo di manipolare l’elezione del 2020 potrebbero essere le più serie; purtroppo sono state precedute e screditate da alcune montature giudiziarie farsesche. In campo repubblicano i rivali di Trump sono sempre più deboli, e una ragione sta proprio nelle vicende giudiziarie: sono costretti a solidarizzare con lui, quindi lo ingigantiscono e rimpiccioliscono se stessi. In campo democratico c’è una sorta di inconfessabile nausea che circonda la ricandidatura di Joe Biden. La maggioranza dei suoi elettori la subiscono, nella migliore delle ipotesi come un male minore, più spesso come un’assurdità contro cui non hanno alcun potere di ribellarsi.
La democrazia continua a soffrire
Elezioni 2024, gli Stati Uniti si avviano verso un duello tra due leader anziani, sfiduciati da una maggioranza di elettori, con enormi problemi di credibilità. Pechino e Mosca gongolano
/ 14.08.2023
di Federico Rampini
di Federico Rampini