La democrazia alla ricerca di sé stessa

Le nostre radici, la storia d’Europa è attraversata da una tendenza costante, e sempre contrastata, alla condivisione del potere
/ 05.09.2022
di Alfredo Venturi

Quali elementi hanno concorso a formare la società europea e le sue proiezioni oltremare? Proviamo a cercare le possibili risposte con una serie di articoli. Il primo, qui di seguito, riguarda la democrazia e le sue vicissitudini, dall’epoca antica al malessere di questi giorni. «Un governo del popolo, dal popolo, per il popolo». Così Abraham Lincoln nel discorso di Gettysburg, pronunciato nel 1863 sul campo di battaglia che vide il nord assicurarsi la vittoria nella Guerra di secessione. Il sedicesimo presidente degli Stati Uniti, chiamando gli americani all’unità e alla difesa della democrazia, chiariva molto bene il significato di quest’ultimo concetto. Ma il contenuto del termine «popolo» non era ancora ben definito. Il sanguinoso conflitto fra gli Stati schiavisti del sud e quelli abolizionisti del nord era in corso e soltanto un paio di anni più tardi il tredicesimo emendamento della Costituzione cancellerà definitivamente la schiavitù, una pratica in evidente contrasto con i valori della Rivoluzione americana.Del resto anche nell’antica Atene, considerata la culla della democrazia, questa forma di governo che attribuiva il potere al demos trascurava di includere gli schiavi (e gli stranieri). Il popolo cui spettava il diritto di autogovernarsi era limitato ai soli uomini liberi e, oltre agli schiavi, escludeva le donne. Una democrazia decisamente imperfetta dunque. Ma quando mai non lo è stata? Winston Churchill non la definì forse la peggiore forma di governo ad eccezione di tutte le altre? Churchill ragionava da statista e in quanto tale si rendeva conto degli scomodi vincoli imposti dal rispetto delle regole a chi deve guidare un paese. Vincoli necessari, ma tali da rendere difficile l’arte della politica. Al contrario, come diceva Cavour, tutti son buoni a governare con lo stato d’assedio…

La storia d’Europa è attraversata da una tendenza costante, e costantemente contrastata, alla condivisione del potere. Le lotte dei Comuni che volevano ridurre a proprio vantaggio le prerogative imperiali ne sono un esempio eloquente e vanno considerate fra gli elementi fondanti della civiltà europea. In quello stesso periodo storico ecco la Magna carta libertatum, che il sovrano inglese Giovanni Senzaterra dovette firmare nel 1215 sotto la pressione dei baroni. Più volte modificata, fino alla versione definitiva voluta nel 1225 da Enrico III, successore di Giovanni, la Magna carta è stata sempre considerata un caposaldo dell’evoluzione giuridica d’Oltremanica, tanto più che quel documento scritto, così come il Bill of Rights che ne riprenderà alcuni punti, spicca nella tradizione inglese del diritto consuetudinario.

Re Giovanni cedette alla pressione dei feudatari perché si era indebolito sul fronte internazionale. In perenne conflitto con il Regno di Francia che voleva impadronirsi dei vasti domini inglesi sul continente non esitò, quando Parigi entrò in guerra con l’imperatore Ottone IV, a schierarsi al fianco di quest’ultimo, che fra l’altro era figlio di sua sorella Matilde. Con l’alleato Ferdinando di Fiandra, Ottone portò il suo esercito in Francia. Il re Filippo Augusto lo aspettava e una domenica d’estate del 1214 lo affrontò a Bouvines, dove i francesi inflissero agli imperiali una sonora sconfitta. Fu così che la Bretagna, l’Angiò, la Turenna e il Maine entrarono a far parte del Regno di Francia.

La presenza inglese sul continente si ridusse a piccole parti della Guascogna e dell’Aquitania. Tornato in patria, il sovrano sconfitto dovette vedersela con i baroni, da sempre in rivolta contro l’accentramento monarchico e ora imbaldanziti dalla sua perdita d’immagine. Quel documento basilare per il sistema politico britannico era dunque scaturito da un rovescio militare. Il suo contenuto è in pratica una cessione di poteri, fino a quel momento esercitati dalla monarchia, non certo al popolo ma ai feudatari. Non si tratta di democrazia ma di un’intesa fra il re e un’oligarchia terriera di piccoli sovrani locali. Siamo nell’ottica della semplice diffusione dei poteri, in ogni caso di grande significato: un passo nella direzione giusta.

Alcuni principi della Magna carta saranno riproposti come detto dal Bill of Rights, la dichiarazione dei diritti scaturita nel 1689 dalla Gloriosa rivoluzione che concluse il periodo più turbolento della storia inglese. Entrambi sono da considerare progressi fondamentali verso la modernità e la costruzione di una coscienza giuridica nell’Occidente. Il Bill of Rights eredita dalla Magna carta quel principio essenziale della civiltà europea che va sotto il nome di habeas corpus, letteralmente «abbi il tuo corpo». È la garanzia dell’inviolabilità personale contro le incarcerazioni arbitrarie: soltanto un’emergenza documentata o una sentenza di condanna proveniente da un’autorità giudiziaria ufficiale possono privare un uomo della libertà. La libertà viene dunque riconosciuta come un valore in sé, che la Rivoluzione francese affiancherà all’eguaglianza e alla solidarietà.

La democrazia è giunta fino ai nostri giorni forte dei suoi pilastri storici, avversata dai regimi totalitari ma sempre vincente come valore nella percezione popolare. Almeno fino a quando si è imbattuta in un ostacolo, la disaffezione politica. Stanche dei riti parlamentari, troppo spesso privi di senso e di concretezza, le opinioni pubbliche sbandano verso il populismo e la demagogia. Anche per questo si comincia a parlare di malessere, anzi di crisi della democrazia. Ne parla il sociologo inglese Colin Crouch, che introducendo il concetto di «postdemocrazia» individua nell’oscura presenza dei cosiddetti poteri forti capaci di controllare l’alta finanza e l’apparato mediatico, in altre parole il denaro e il pensiero, il tarlo che mina il governo del popolo.

Il filosofo americano Jason Brennan suggerisce un sistema politico fondato su un’élite di competenti che ha battezzato «epistocrazia». Brennan è arrivato a questa conclusione partendo da una constatazione: l’elettorato non è all’altezza della sfida, molti non votano e molti altri votano ignorando la teoria e la prassi della politica. Che fare dunque per restituire smalto alla magnifica utopia democratica? Uno storico belga, David Van Reybrouck, propone un nuovo modo di scegliere chi gestirà la cosa pubblica. Si tratta di assegnare le cariche fino a oggi elettive sorteggiandole fra persone che abbiano dichiarato la propria disponibilità. È un’idea provocatoria e intrigante: il parlamento scelto non più dagli elettori ma dai capricci della sorte. Una formula davvero singolare per la democrazia alla ricerca di sé stessa.