Diego Armando Maradona, reduce dal trionfo ai Mondiali di calcio nel 1986, all’apice della sua popolarità, arrivò senza problemi con tutta la Nazionale alla Casa Rosada, in fondo alla Avenida de Mayo, al centro di Buenos Aires. Con in mano la coppa appena vinta, si affacciò al balcone del palazzo presidenziale, alzò il trofeo e con le mani aperte verso il cielo raccolse l’ovazione della moltitudine accorsa a festeggiare da ogni angolo del Paese.
Per Messi e compagni martedì scorso non è stato possibile. C’erano persone ovunque dall’aeroporto internazionale di Ezeiza, a un’ora di autostrada dal centro, fino a qualsiasi strada, parco, marciapiede, lampione, balcone, metro quadro disponibile. Dalla pista dell’aeroporto fino in città. In strada non c’era soltanto una immensa moltitudine, una folla inaudita, un tappeto umano. C’era – secondo il quotidiano argentino «La Nación» – la maggiore concentrazione di persone della storia di un popolo che ha costruito la sua identità collettiva nei cortei di massa. Ad abbracciare la squadra tornata vittoriosa dal Qatar c’erano cinque milioni di persone, forse di più. Ogni stima è discutibile perché azzardare cifre è come cercare di contare i coriandoli per le strade a Carnevale. Il peronismo, il movimento politico scaturito nelle mobilitazioni di massa di cui l’Argentina è culla per antonomasia, mai è riuscito in quel che sono riusciti Messi e compagni.
Per avere un elemento di paragone: quando nel 1983, alla vigilia delle prime elezioni libere dopo la fine della dittatura militare, il futuro presidente Raùl Alfonsìn chiuse la sua campagna elettorale nella Avenida 9 de julio, ai piedi dell’obelisco che segna il centro simbolico di Buenos Aires, c’era un milione di persone. La politica non ha più registrato da allora un momento di aggregazione simile. E nemmeno il calcio.
L’autobus con i giocatori è uscito martedì scorso a mezzogiorno dall’edificio da dove sarebbe dovuta partire la carovana dei festeggiamenti, a 6 km dall’aeroporto, e due ore più tardi non era riuscito a coprire più di pochi metri. Tutti volevano salutare i giocatori di persona, baciarli, dire loro grazie! Quando, quattro ore dopo la partenza, l’autobus era ancora a metà strada, bloccato da una barriera di gente che piangeva di gioia e gridava in estasi alla vista di Messi seduto sul tettuccio che si dissetava da una bottiglia di plastica tagliata a metà, il timore di restare prigionieri del mare di tifosi ha convinto i dirigenti della Nazionale ad abbandonare l’idea del saluto alla folla dall’obelisco e a tentare una via alternativa per l’autostrada 25 de mayo, una sopraelevata che si affaccia sul centro città. La voce è corsa in un attimo. Centinaia di migliaia di persone si sono stipate sull’autostrada come su un balcone affollato. Grande paura di rivolte, tumulti, tragedie. Evitate dall’idea di mettere la squadra su due elicotteri per sorvolare e salutare la folla lungo il percorso. Ha funzionato. Gioia, brindisi, grida, pianti. Alla fine si è trattato di un incredibile evento di massa tendenzialmente pacifico – ad eccezione di qualche arresto, alcuni incidenti con delle vittime – svoltosi nel caos più totale. Un alito di magia ha fatto scivolare piano piano a casa cinque milioni di persone. E ha evitato la catastrofe dell’ordine pubblico.
Tutti per strada davano l’impressione di essere consapevoli di vivere un evento storico. L’Argentina che porta a casa la coppa del mondo dopo trentasei anni, nell’ultimo mondiale di Messi, il primo giocato senza il sorriso di Maradona. Una grande festa popolare con la gioia inenarrabile d’aver portato via la coppa non a un avversario qualsiasi ma ai francesi. Il trofeo non è a Parigi, ma a Buenos Aires. E soprattutto non nell’oro della Ville lumière nel cuore d’Europa ma nelle Villas miserias dell’estremo sud del sud America.
Quest’orgoglio attraversa gli argentini di tutte le classi sociali e li rende finalmente popolo, loro che popolo non sono mai stati. La gioia li unisce. Aver sconfitto in finale la Francia è una goduria che non ha nulla a che vedere con il pallone perché va oltre il calcio e si nutre dell’eterno sguardo ammaliato della cultura argentina, soprattutto della cultura alta d’élite, verso Parigi. Città amata, idolatrata e invidiata in nessun posto del mondo tanto quanto a Buenos Aires. Basta guardare i palazzi del centro della capitale argentina per vederlo. I più belli sono stati costruiti a fine Ottocento, primo Novecento secondo i disegni che i migliori architetti francesi dell’epoca avevano preparato per gli edifici parigini. Ogni fregio, ogni dettaglio, ogni orpello di quei ricchissimi progetti originali – quasi sempre eseguiti non alla lettera negli edifici francesi, non fosse altro che per razionalizzare i costi – è stato riprodotto pari pari dagli esecutori emigrati oltre Oceano.
Quei disegni minuziosi sono stati trattati dagli ingegneri e dagli architetti di Buenos Aires come fossero le tavole della legge. Nemmeno un fiore, una fogliolina di marmo sono stati cassati. E stanno ancora lì, intagliati nell’incredibile skyline della metropoli argentina a disegnare nel cielo australe la solennità della capitale di un impero che non esiste, che non c’è mai stato. Ma che ora si sente sul tetto del mondo, grazie al prodigio del calcio. È la «revancha del tango», la grande e dolcissima rivalsa di un popolo che per una giornata intera ha urlato dalla strada ai suoi campioni appena rientrati dal Qatar: «Messi y la copa estàn en casa».