Sulle tasse Donald Trump celebra la sua prima vera vittoria legislativa. Il Senato ha approvato la riforma fiscale su cui il presidente si gioca molto. È la prima grossa riforma che lui porta a conclusione in un anno di governo. La versione del Senato andrà armonizzata con quella della Camera ma la prova di coesione della destra lascia pochi dubbi: prima delle vacanze di Natale con ogni probabilità la riforma arriverà sul tavolo del presidente per la sua firma e il varo definitivo. Dentro le quasi 500 pagine del testo ci sono 1500 miliardi di dollari di riduzioni d’imposte spalmate su dieci anni. I repubblicani la presentano come una manovra «reaganiana» che sosterrà la crescita, l’occupazione e i redditi delle famiglie. I democratici denunciano un iter precipitoso, l’effetto disastroso sui conti pubblici, i regali alle imprese che aumenteranno le diseguaglianze.
Il beneficio più sostanziale va senza dubbio alle aziende che si vedono abbassare dal 35% al 20% la tassa sugli utili (al 22% nella versione della Camera). C’è anche un alleggerimento speciale riservato alle imprese a proprietà familiare. In teoria quest’ultimo dovrebbe aiutare le piccole imprese, in realtà anche un’azienda medio-grande come quella dello stesso Trump, la cui architettura proprietaria è frammentata su centinaia di piccole entità, ne ricaverà uno sconto fiscale stimato al 23%.
In quanto alle persone fisiche, i repubblicani sostengono che questa riforma alleggerisce il carico fiscale sul 70% delle famiglie, un’affermazione che viene contestata dall’opposizione di sinistra e da molti esperti. L’impatto sul ceto medio dipende da molte variabili perché la nuova normativa modifica detrazioni e deducibilità delle spese. Il danno più evidente è per chi abita negli Stati governati dai democratici (come California e New York) dove ci sono maggiori servizi pubblici finanziati dalle addizionali Irpef. Queste imposte locali sul reddito non saranno più deducibili ed anche la deducibilità delle imposte sulla casa viene ridotta. Un’altra incognita è legata alla scadenza dei benefici, quelli per le famiglie possono sfumare dopo sette anni se il deficit pubblico aumenta.
L’impatto sui conti pubblici è uno dei temi controversi. Un organo bipartisan del Congresso ha stimato che il deficit federale peggiorerà di mille miliardi in un decennio. I repubblicani rispolverano la «teoria dell’offerta» in voga ai tempi di Ronald Reagan, sostengono che l’impulso alla crescita finirà per aggiustare i conti pubblici. La sinistra ironizza sul fatto che i repubblicani promettono conti in pareggio quando sono all’opposizione, poi una volta al governo li sfasciano per regalare sgravi fiscali alle loro constituency più potenti. L’argomento degli sgravi fiscali che si auto-finanziano, tuttavia, è stato usato anche dalle sinistre europee in chiave anti-austerity.
Almeno altrettanto controverso, è l’altro dogma ideologico che sta dietro questa riforma: anche questo ebbe la massima diffusione negli anni Ottanta sotto la presidenza Reagan quando venne definito «trickle-down effect» o effetto a cascata. È l’idea che tassare meno le imprese e i loro grandi azionisti alla fine ci renderà tutti più ricchi, perché aumenteranno gli investimenti, le assunzioni, le retribuzioni. Quarant’anni di storia da Reagan ai nostri giorni, segnati dalla dilatazione estrema delle diseguaglianze e dalla concentrazione di ricchezze a vantaggio di una ristretta oligarchia, non hanno impedito la rinascita di questa teoria.
«Siamo ai massimi su ogni fronte inclusa, la Borsa – ha dichiarato Trump – dopo il più grosso taglio delle tasse nella storia di questa nazione. I democratici la pagheranno perché non è politicamente utile votare contro le riduzioni d’imposte». Una parte del conto, stando alle prime stime, lo pagheranno 13 milioni di americani nei ceti meno abbienti: sono quelli che rischiano di perdere l’assistenza medica, perché la manovra fiscale abolisce molti sussidi federali per l’acquisto di polizze sanitarie da parte di chi ha redditi bassi. La stessa fretta spasmodica criticata dai democratici per questo iter legislativo, si può leggere anche in altro modo: di fronte a un test decisivo la destra è riuscita a superare le proprie differenze interne e a dare prova di unità.
La rivoluzione trumpiana è ripartita. O contro-rivoluzione: disfa i parchi nazionali, blinda le frontiere, liberalizza Wall Street, cancella sistematicamente le riforme del suo predecessore. Sta di fatto che il presidente è ripartito all’offensiva, macina atti e proposte come fosse tornato ai suoi primi cento giorni. Dopo quasi un anno di governo assai magro di risultati concreti fino a una settimana fa, gli ultimi giorni hanno visto un’improvvisa accelerazione. E tanti successi, sempre nel suo stile divisivo, lacerante: tant’è che nei sondaggi lui scende ancora, al minimo storico del 35%. Compatta i suoi, indigna gli altri.
La riforma fiscale è un pezzo di programma elettorale che va in porto, e non era scontato visto che la maggioranza repubblicana si era sfilacciata quando aveva tentato di abrogare la sanità di Obama. Poco prima della votazione sulle tasse, la doppia nomina al vertice della Federal Reserve e dell’agenzia per la tutela del risparmiatore, all’insegna della deregulation finanziaria: un’altra promessa fatta (a Wall Street) e ora mantenuta. Altri due capitoli della contro-rivoluzione riguardano ambiente e controlli alle frontiere. Il primo lo ha scritto Trump andando nello Utah ad annunciare un altro assalto all’ambientalismo del suo predecessore: sotto tiro i parchi nazionali, un’istituzione americana che fu sempre circondata dal rispetto bipartisan. L’ultimo sfregio è la rimozione dalle aree protette di vaste porzioni del Bears Ears National Monument, inclusa la magnifica Valley of Gods. Lo ha deciso in nome della lotta contro «lo strapotere federale», una crociata ideologica che neppure Reagan volle condurre così lontano. I parchi federali in quest’ottica sono una forma di statalismo... In realtà risalgono al repubblicano Theodore Roosevelt.
E mentre Trump era nello Utah, gli arrivava la buona notizia della Corte suprema. Il massimo organo della giustizia americana – dove i repubblicani hanno la maggioranza – ha ripescato il Muslim Ban che diversi tribunali di ordine inferiore avevano bloccato. Così entrano in vigore quei blocchi ai visti per i cittadini di sei paesi a maggioranza musulmana.
L’impeto ritrovato dà anche maggiore autorevolezza al presidente nei confronti del suo partito, sia pure alienando ulteriormente l’elettorato democratico. Trump trascina il Grand Old Party verso una scelta delicata a pochi giorni dalla controversa elezione senatoriale in Alabama. Quella del 12 dicembre è diventata un test politico nazionale per via della figura del candidato repubblicano Roy Moore. Malgrado le accuse di diverse donne che dicono di essere state molestate da Moore quando erano minorenni, Trump ha deciso di appoggiarlo e i notabili repubblicani si sono accodati. «Non vogliamo un liberal democratico in Alabama» ha detto Trump. Prevale il dogma della destra, inclusi i puritani del fondamentalismo cristiano: la moralità dei politici non interessa, purché siano dei nostri (e antiabortisti). Ieri infine il presidente ha rilanciato il tema del protezionismo: «Basta squilibri commerciali con Messico e Canada, rivedremo il mercato unico Nafta».
Eppure venerdì primo dicembre la notizia shock era stata di segno negativo: l’incriminazione del generale Michael Flynn, che dava l’immagine di una Casa Bianca assediata dallo scandalo. Ora un nuovo scudo contro il Russiagate viene affacciato da uno dei legali di Trump: è impossibile che il presidente sia colpevole di «ostruzione alla giustizia» visto che è lui il massimo responsabile dell’applicazione della giustizia in base alla Costituzione.
Infine la rivoluzione o contro-rivoluzione è ripartita anche in politica estera con la clamorosa decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele. «Donald Trump mantiene le promesse». La Casa Bianca ricorda che in campagna elettorale l’allora candidato lo aveva detto più volte: sposteremo l’ambasciata a Gerusalemme. La sua alleanza con Benjamin Netanyahu è di ferro, questa è un’altra prova di fedeltà.
È l’ultimo capitolo di una lunga storia di allineamento tra la destra Usa e la destra israeliana: risale al 1995 il voto del Congresso per lo spostamento dell’ambasciata, si era nel bel mezzo della presidenza di Bill Clinton. Tutti i presidenti successivi ignorarono quella volontà del Congresso, Trump no.
L’ultima versione indica qualche concessione alle pressioni degli alleati arabi (sauditi e giordani): pur dichiarando il riconoscimento formale di Gerusalemme come capitale di Israele, Trump rinvia lo spostamento dell’ambasciata a una data da definirsi. Sfuma l’ipotesi del blitz istantaneo – in fondo basta cambiare targa all’ingresso del Consolato Usa e «trasformarlo» in ambasciata all’istante – ora la Casa Bianca parla di acquistare un terreno ad hoc. Un accorgimento che può far slittare l’apertura fisica della nuova ambasciata addirittura di anni.
Resta il rischio che le reazioni dei palestinesi e del mondo arabo sfuggano di mano. Già il Dipartimento di Stato prepara avvertimenti per tutti gli americani in quell’area, in vista di violenze possibili. Il rischio geostrategico più generale è quello di accelerare una ricomposizione degli equilibri in Medio Oriente, spostando ancor più in favore della Russia le alleanze. Dopo il successo di Putin nel puntellare Assad abbiamo avuto l’avvicinamento tra la Turchia e la Russia, infine manovre di disgelo anche fra il Cairo e Mosca. Il grande vincitore in questo terremoto di alleanze nel Medio Oriente rischia di essere Putin.