La Cina più ancora dell’America

La seconda guerra fredda – La vera storia da seguire, al di là dello scontro commerciale fra le due superpotenze, è la marcia in avanti di Pechino. Non tanto l’anomalia di Trump a cui abbiamo addossato quasi ogni male in tutto il 2019
/ 06.01.2020
di Federico Rampini

Sarà Donald Trump, con l’aiuto di Boris Johnson, a lasciare la sua impronta sull’anno che si è appena concluso. Leader anomalo per molti di noi, forse; non per chi lo ha votato. Corpo estraneo maledetto dall’establishment e dalle élite, ma tutt’altro che eccezionale: se si allarga lo sguardo ci si accorge che sovranismi, nazionalismi e protezionismi sono al governo del pianeta: in Cina, India, Russia Turchia e Brasile. Riabilitando questi valori nel cuore della più antica liberaldemocrazia, Trump ha un effetto geopolitico che è stato colto da Henry Kissinger. Personaggi sconcertanti o perfino mostruosi come Trump – disse Kissinger usando termini più diplomatici – sono il modo in cui la Storia ci segnala che un’epoca si chiude.

Questo presidente accelera la fine dell’epoca unipolare in cui l’America tentò di fare il guardiano del mondo, di governare un nuovo ordine internazionale. Alleati-critici e nemici acerrimi, vicini e lontani, hanno scoperto che l’America può esaudire le loro richieste: tornandosene a casa. La superpotenza rivale, la Cina, vede aprirsi nuovi spazi alla sua influenza ma al tempo stesso non può dare per scontato che il mercato americano le sia spalancato. Il trentennio che chiamammo «globalizzazione» aveva esaurito la sua spinta propulsiva e da tempo aveva tradito le promesse fatte ai ceti meno forti. Oportet ut scandala eveniant, lo scandaloso Trump ha avuto una lunga gestazione, la sua irruzione ha fatto pulizia di tante illusioni bugiarde.

Il 2019 è stato un altro anno nero per gli economisti. È una categoria dalle responsabilità enormi. Se nel mondo intero soffia il vento del populismo, la colpa è anche loro, in misura sostanziale. Avendo sbagliato ogni sorta di previsione, diagnosi, prognosi e ricette prima della crisi del 2008, hanno contribuito enormemente a generare diffidenza verso gli esperti. E quando i tecnocrati vengono sfiduciati, il passo è breve per consegnare il governo agli incompetenti. Ma anziché gridare allo scandalo perché il popolo è becero, bisogna prendersela con chi lo ha ingannato prima. Nel 2019 dove hanno sbagliato? Praticamente su tutto. Un coro unanime aveva pronosticato disastri immani se Donald Trump avesse osato mettere dazi sui prodotti cinesi; o se Boris Johnson avesse sostituito Theresa May al governo del Regno Unito. Io non simpatizzo né per Trump né per il suo amico inglese. Però mi corre l’obbligo di constatare che i disastri non sono avvenuti.

L’economia americana ha ripreso a correre e a generare posti di lavoro in gran quantità. I salari operai crescono più adesso che sotto Obama. E dov’è l’Apocalisse generata dai dazi? In particolare, la stragrande maggioranza degli economisti concordava sul fatto che le tasse doganali le avrebbe pagate il consumatore americano. Cioè che sarebbero state scaricate sui prezzi finali. Ma l’inflazione al consumo negli Stati Uniti resta ostinatamente inchiodata al 2% annuo o anche meno, cioè esattamente dov’era prima dei dazi. Eppure la tregua Washington-Pechino che ha ridotto alcuni dazi e ne ha evitato altri, è arrivata solo nel dicembre 2019 cioè dopo quasi un biennio in cui molte tasse doganali erano state in vigore (si cominciò con acciaio, alluminio, elettrodomestici).

Anche a Londra non è accaduta l’Apocalisse nei mesi di governo di Boris Johnson. Naturalmente gli «esperti» hanno la risposta pronta: l’Apocalisse è dietro l’angolo, non c’è stata ma sta per arrivare. Il trucco è semplice, basta spostare le lancette dell’orologio, le previsioni fallite nel 2016 (anche allora si disse che una vittoria Brexit avrebbe portato al collasso economico) sono state spostate al 2017, 2018, 2019, 2020. Idem sui dazi, la rovina non c’è stata ma solo perché Trump si è pentito e ha raggiunto una tregua. Già, ma le previsioni dicevano che i dazi dovevano rovinarci già un anno fa. È troppo comodo aggiornarle modificando di continuo il calendario.

La copertina di «Time» dedicata a Greta non inganni: il 2019 è stato un anno disastroso anche per l’ambiente. E non per colpa del solito cattivo, Trump. O per lo meno, non è in misura decisiva per colpa sua. Il cattivo di turno semmai è la Cina, che zitta zitta ha compiuto una contro-rivoluzione. Dopo anni in cui aveva conquistato la leadership mondiale negli investimenti verdi, Pechino li ha tagliati brutalmente. Nel primo semestre del 2017 la Repubblica Popolare aveva investito l’equivalente di 76 miliardi di dollari in energie rinnovabili; nel primo semestre del 2019 solo 29 miliardi. Le nuove installazioni di centrali elettriche ad alimentazione solare raggiunsero i 53 gigawatt nel 2017 mentre sono calate del 40% quest’anno. Le emissioni carboniche della superpotenza asiatica nel corso del 2019 sono cresciute del 3%.

Certo, per effetto dei suoi investimenti passati la Cina resta leader nelle rinnovabili. Per un paradosso legato alla sua dimensione, questa nazione riesce ad essere al tempo stesso la più verde e la più inquinante del pianeta (peraltro inseguita e ormai tallonata dall’India, ma solo nella competizione a chi inquina di più). A pagare un prezzo elevato per la contro-rivoluzione di Xi sono le stesse aziende solari cinesi che avevano conquistato i mercati mondiali fino a sgominare e distruggere gran parte dell’industria solare americana o europea.

È emblematico il caso della Yingli Solar che un decennio fa divenne la regina mondiale del solare, anche grazie a generosi aiuti e sussidi governativi. Oggi la società è in bancarotta, continua a produrre pannelli solari ma in perdita. Formalmente, Xi non ha rinnegato gli impegni presi al vertice di Parigi nel 2015. Ma solo perché quegli impegni erano troppo limitati. Ricordiamolo: nel grande accordo ambientalista con Barack Obama, Xi Jinping si limitò a promettere che le emissioni carboniche della Cina si sarebbero fermate nel 2030. Il che significa un aumento di altri dieci anni per la «fabbrica di CO2 più grossa del pianeta.

Il caso della Cina è del tutto centrale per il futuro del pianeta, ed è ormai ben più cruciale del comportamento americano. Ma c’è una costante che accomuna la Cina a tanti altri paesi, inclusi gli Stati Uniti: la legge ferrea per cui tra la crescita economica e l’ambiente, si sceglie la crescita. Perfino un regime autoritario come quello di Pechino ha un vincolo del consenso sociale da rispettare. Se la riduzione dell’inquinamento ha costi troppo elevati nel breve termine – centrali da chiudere, fabbriche da spostare, miniere di carbone da abbandonare – i posti di lavoro distrutti non vengono immediatamente sostituiti e questo rende impopolari i governi. In fondo è la lezione di Emmanuel Macron davanti ai Gilet Gialli: il presidente francese rinunciò alla carbon tax che impoveriva un pezzo di ceto mediobasso delle provincie. Xi si comporta nello stesso modo.

Il primo gennaio ha inizio la presidenza americana del G7. Un istituto di governance globale finisce sotto la guida di un governo anti-global, vedremo se Trump riuscirà a lasciarvi la sua impronta alleggerendone l’agenda. Forse il mondo non tiene il fiato sospeso per questo. Da tempo abbiamo perso ogni illusione su questo formato di vertici, che aspirava ad essere una cabina di regia della globalizzazione. Partiti come G5, via via allargati fino al G8 che incluse la Russia, questi summit sembrarono funzionare fino a quando ratificarono un consenso che era la conseguenza della Pax Americana, del momento unipolare, della effimera egemonia Usa. Grosso modo dal 1989 al 2008, dalla caduta del blocco comunista alla grande crisi del capitalismo occidentale. Poi qualcuno ha favoleggiato di un G2, direttorio a due tra America e Cina. Infine siamo al G-Zero, al tempo del sovranismo manca perfino un consenso minimo sulle regole del gioco, altro che obiettivi comuni.

Il G7 del resto era ampiamente superato nei fatti, prima di tutto per evidente anacronismo geografico. La sua composizione, con tutto il rispetto per Italia Francia Regno Unito, risulta smaccatamente eurocentrica. Solo la Germania ha la stazza di una potenza economica. La geografia del G7 ci riporta a un tempo in cui mezzo Pil del pianeta si generava tra le due sponde atlantiche. Con il Giappone come unica nazione non etnicamente bianca, il G7 era rappresentativo di un mondo liberaldemocratico e capitalista durante la Guerra fredda. Come G8 ebbe vita breve, solo fino a quando Mosca mise fra parentesi la propria aspirazione imperiale. Il formidabile decollo cinese, il peso di India Brasile Arabia e Turchia, hanno svuotato di rappresentanza i G7.

La rinascita dei nazionalismi e dei sovranismi, partita dalla periferia prima di contagiare il centro, ha tolto anche quel poco di coesione o convergenza di intenti fra capitalismi maturi. Un G7 trumpiano sembra un controsenso, invece potrebbe servire a misurare il minimo comune denominatore. Forse ricordandoci che il re era nudo da tempo. Il mondo farebbe bene a prestare attenzione invece al prossimo ridimensionamento della presenza militare americana in Africa. C’è una logica, che corrisponde non soltanto all’isolazionismo istintivo di Trump. Nell’establishment militare – ivi compresi quei generali che Trump lo disprezzano – si è diffusa la convinzione che le risorse vanno ridislocate.

Dall’11 settembre 2001 l’America ha sprecato 18 anni inseguendo una «guerra al terrorismo» dai risultati controversi; inevitabilmente ha trascurato le minacce vere che nel lungo periodo possono attentare alla sua sicurezza e cioè la Cina, in subordine la Russia. Ritirarsi dall’Africa è uno dei gesti coerenti con una nuova agenda, una nuova selezione delle priorità. Nella seconda guerra fredda che è cominciata, l’America non può permettersi di difendere l’intero perimetro della sua sfera d’influenza; la sua ritirata viene riempita dalle Nuove Vie della Seta, o dalle legioni mercenarie di Erdogan e Putin.