Lo spauracchio che tormenta i sonni di Donald Trump (e di molti altri politici e imprenditori di tutto il mondo) si chiama «Made in China 2025». Varato nel 2015, il piano è articolato come una sorta di doppio piano quinquennale e prevede una profonda trasformazione di tutta l’industria cinese, che dovrebbe passare dall’essere la «fabbrica del mondo» ad affiancarsi a quelle più avanzate del pianeta, in particolare, quelle di Stati Uniti, Germania, Giappone e Corea del Sud. Questi paesi – e in minor misura altri come l’Irlanda, l’Ungheria, la Repubblica Ceca – si sono specializzati nelle produzioni ad alto valore aggiunto tecnologico che vanno dalla robotica all’informatica, ai treni ad alta velocità, ecc.
In altre parole, la Cina non solo smetterebbe di fornire al resto del mondo i prodotti dell’industria manifatturiera a costi relativamente bassi – come fa dagli anni Ottanta del secolo scorso fino ad oggi – ma non diventerebbe mai il «mercato di miliardo di consumatori» sognato dai businessmen di tutto il mondo, dato che diventerebbe autosufficiente in una serie di produzioni strategiche.
Il sogno si trasformerebbe in un incubo. Alcuni paesi avanzati come quelli che abbiamo citato subirebbero un forte impatto negativo dalla concorrenza cinese e tutti gli altri perderebbero un mercato per le loro esportazioni potenzialmente più lucrose.
Questo spiega almeno in parte perché la politica di guerra commerciale – o pre-guerra, se preferite – di Trump verso la Cina sta riscuotendo l’approvazione di molti commentatori che di solito non gli risparmiano le critiche, come l’americano Fareed Zakaria, che lavora per media «nemici» del presidente come il «Washington Post» e la CNN. In un commento dal significativo titolo «Trump ha ragione: la Cina imbroglia», Zakaria ha scritto: «Guardiamo all’economia cinese di oggi: è riuscita a bloccare o a contenere alcune delle compagnie tecnologiche di successo, da Google a Facebook ad Amazon. Le banche straniere devono spesso operare con partner locali che aggiungono un valore pari a zero, di fatto una tassa per le compagnie straniere. Gli industriali stranieri sono costretti a condividere la loro tecnologia con partner locali che spesso la utilizzano per confezionare prodotti simili che competono con quelli dei loro partner. E poi c’è il cybertheft», lo spionaggio informatico, che secondo molti analisti è ampiamente praticato dai cinesi.
Scott Kennedy del Center for Strategic and International Studies (CSIS), ha sottolineato che «Made in China 2025» è «un’iniziativa per rinnovare completamente l’industria cinese», che «trae una diretta ispirazione dal piano della Germania chiamato Industry 4.0, discusso una prima volta nel 2011 e adottato nel 2013». Il piano tedesco ha al suo centro, precisa Kennedy, «la manifattura intelligente, vale a dire l’applicazione della tecnologia informatica al contesto tedesco». Il piano cinese è «molto più vasto» e coinvolge l’industria cinese nella sua interezza. «Il suo principio guida – scrive – «è quello di avere un’industria guidata dall’innovazione, in modo che possa occupare i posti più alti nella catena globale della produzione».
Il piano indica dieci settori prioritari. Eccoli: 1. la nuova tecnologia informatica; 2. le macchine utensili automatizzate e la robotica; 3. l’aerospazio e componenti per l’industria aeronautica; 4. prodotti per la navigazione e il trasporto marittimo ad alta tecnologia; 5. componenti per il trasporto moderno su rotaia; 6. veicoli elettrici o che utilizzano energie alternative al petrolio; 7. prodotti per l’energia; 8. macchinari per l’agricoltura; 9. nuovi materiali; 10. biofarmacia e altri prodotti medici avanzati.
Lorand Laskai, blogger e ricercatore del Council of Foreign Relations ha sottolineato come il «Made in China 2025» venga citato per 116 volte in un recente rapporto sottoposto a Trump dall’ufficio dello United States Trade Representative della lunghezza totale di 200 pagine. Laksai ricorda che alcuni degli obiettivi centrali del piano cinese – come quello che prevede che nel 2025 alcuni dei settori avanzati dell’industria cinese come le telecomunicazioni e l’aerospazio siano autosufficienti al 70% – sono in contraddizione con le regole della World Trade Organization (WTO), alla quale la Cina ha aderito nel 2001. Inoltre, in nessun altro paese lo Stato è direttamente presente nella produzione e nelle strategie industriali come in Cina.
Secondo il blogger, Pechino sta cercando di colmare il gap tecnologico che ancora la separa dall’industria avanzata occidentale con mezzi truffaldini tra cui – oltre ai veri e propri furti di tecnologia – si possono annoverare gli acquisti di imprese, o di pezzi di imprese straniere. «La crescita degli investimenti cinesi negli Usa e in Europa è stata una storia spesso riportata negli ultimi anni. Ma i legislatori sono sempre più preoccupati per questi investimenti, soprattutto nei settori ad alta tecnologia, che potrebbero non essere il frutto dell’operare delle forze di mercato, ma che potrebbero essere decisi dal governo di Pechino». Laksai cita il caso della Fujian Grand Chips, un’impresa cinese formalmente privata che era in trattative per comprare la tedesca Aixtron, produttrice di macchinari utensili ad alta tecnologia. Caso strano, proprio in quei giorni un’altra impresa cinese, anch’essa basata nella provincia del Fujan, chiamata San’an Optoelectronics, ha cancellato un massiccio ordine che in precedenza aveva assegnato all’Aixtron. La valutazione in Borsa dell’impresa tedesca è crollata in seguito all’annullamento dell’ordine, favorendone l’acquisto da parte della Fujian Grand Chips. Entrambe le imprese in questione, aggiunge il blogger, hanno tra i loro principali proprietari un fondo di investimenti controllato dal governo di Pechino.
La Cina ha indicato nella necessità di sfuggire alla cosiddetta «trappola del reddito medio» la motivazione di base del piano. Secondo gli economisti la «middle income trap» scatta quando un paese, nel passaggio dalla produzione manifatturiera ad alto contenuto di lavoro ad una più avanzata rimane bloccata ad livello intermedio perché perde il suo vantaggio nei settori «vecchi» quando non è ancora in grado di competere con le economie più sviluppate nei settori nuovi e più avanzati. È quello che è successo, affermano alcuni analisti, a paesi come l’India e il Brasile.
I dirigenti cinesi hanno capito da tempo, almeno dal 2007-2008, che il periodo nel quale la Cina è cresciuta massicciamente grazie alla produzione manifatturiera ad alto contenuto di lavoro sta irrimediabilmente volgendo al termine. La Cina è in mezzo al guado: sul mercato globale, molti dei prodotti «vecchi» – per esempio quelli dell’industria tessile – vengono già oggi da paesi come il Bangladesh e l’Ucraina, dove i salari sono rimasti bassi mentre in Cina sono aumentati.
Il piano di Xi Jinping ha sostituito quello elaborato dal suo predecessore Hu Jintao e dal suo esperto di economia, l’ex-premier Wen Jiabao. Il piano della coppia Hu/Wen identificava sette settori industriali «strategici» nei quali concentrare le forze locali dell’innovazione e della trasformazione. Come abbiamo visto, l’obiettivo di Xi è molto più vasto e punta ad una trasformazione complessiva dell’industria cinese, che le permetta di sfuggire alla «trappola del reddito medio» e di competere alla pari con gli Usa, l’Europa e i paesi più avanzati dell’Asia Orientale.
A ben guardare, si tratta di una fedele traduzione sul terreno dell’economia della strategia complessiva dell’«uomo forte» cinese. All’interno, Xi ha fortemente rafforzato la repressione verso tutte le forme di azione sociale e/o politica autonome dal Partito Comunista, sia che si tratti del sistema legale – con la persecuzione degli avvocati democratici – che delle minoranze etniche tibetana e uighura. Inoltre, ha intrapreso all’interno del Partito una purga colossale, che ha portato in galera o davanti al plotone di esecuzione centinaia di migliaia di funzionari di tutti i livelli. Con una serie di riforme ha eliminato tutti i limiti che negli anni precedenti erano stati posti al potere del presidente della Repubblica Popolare, che è anche segretario del Partito e capo delle forze armate. Il super-presidente ritiene probabilmente di essere ora in grado di dirigere fin nei suoi dettagli il piano di «ringiovanimento» della Cina, che dovrebbe diventare nei prossimi decenni la nuova superpotenza in sostituzione dei declinanti – nella sua percezione – Stati Uniti. Non saranno certo le regole del WTO sulla concorrenza a fermare la sua marcia.