La Cina mostra le prime crepe

Confronto – Dalle rivelazioni sul NYT dei lager per gli uiguri musulmani nello Xinjiang, al varo della legge americana a favore delle proteste dei giovani di Hong Kong: lo scontro fra Usa e Cina non è più solo commerciale
/ 02.12.2019
di Federico Rampini

Sta diventando sempre più difficile per Donald Trump e Xi Jinping circoscrivere lo scontro fra le due superpotenze alla sola sfera commerciale. Dai campi di prigionia nello Xinjiang, alle elezioni di Hong Kong, nelle ultime settimane il contenzioso tra America e Cina si è allargato. Fino al varo di una legge che autorizza sanzioni Usa in caso di abusi contro i diritti umani nell’isola semi-autonoma, ex colonia britannica. E se in passato era stato soprattutto Trump a subire critiche per la sua gestione della questione cinese, ora qualche crepa sembra apparire anche nel regime di Pechino. Questa può essere la spiegazione degli «Xinjiang Papers».

Così vengono chiamate quelle rivelazioni dettagliate apparse in primo luogo sul «New York Times», riguardo al trattamento della minoranza etnico-religiosa degli uiguri. Si tratta di quella popolazione di origine turcomanna e di religione islamica, che abita prevalentemente nella regione dello Xinjiang. A tutti gli effetti si può considerare lo Xinjiang come una «colonia» interna all’impero cinese, visto che è stata annessa ma ha una storia e una cultura ben distinte. È semi-desertica ma ricca di materie prime e di energia.

Gli uiguri sono solo una decina di milioni però hanno una rete di relazioni internazionali coi popoli confinanti, anch’essi musulmani, dai kazaki agli afgani ai tagiki. È noto da tempo che quella regione è stata il teatro di periodiche rivolte contro il regime di Pechino, sempre soffocate con la repressione poliziesca e militare. Più ancora che in Tibet, è nello Xinjiang che il Grande Fratello cinese ha fatto un salto di qualità, applicando al controllo della popolazione metodi tecnologici sempre più raffinati. 

Già dieci anni fa fui testimone diretto di un esperimento di blackout elettronico: mentre attraversavo lo Xinjiang per raccontare una rivolta, mi trovai in un isolamento totale, con Internet e telefonini oscurati, tagliati fuori dal resto della Cina e del mondo. Ma da allora i progressi sono stati ancora più impressionanti: il regime ha iniziato una mappatura biometrica e genetica per schedare gran parte della popolazione uigura anche in base al Dna. Circa un milione di uiguri si sono visti togliere il passaporto e quindi sono di fatto impossibilitati a lasciare quella regione. È nota da tempo anche l’esistenza di campi di detenzione, dove centinaia di migliaia di uiguri sono stati rinchiusi.

Infine – e qui arriviamo alle rivelazioni degli «Xinjiang Papers» – è iniziata una «rieducazione di massa» che per i suoi metodi ricorda i tempi del maoismo, le grandi purghe idologiche, la Rivoluzione culturale guidata dalle Guardie rosse. La sostanza di quest’operazione, è che non si concentra su chi ha osato protestare o ribellarsi, ma prende di mira in modo sistematico tutti quei «comportamenti devianti» che di fatto sono associati alla cultura, alle tradizioni, alla religione locale. Leggere il Corano, farsi crescere la barba, non mangiare carne di maiale, diventano segnali di «devianza» che vanno corretti negli appositi campi di rieducazione. I dettagli usciti sul «New York Times» indicano una campagna sistematica per cancellare l’identità di un’intera etnìa. Queste rivelazioni, per quanto drammatiche, non fanno che aggravare un quadro che era già noto. 

Quello che colpisce è il fatto che vengono da fonti interne al partito comunista cinese. Per i giornalisti occidentali è già abbastanza difficile entrare nello Xinjiang; è praticamente impossibile avvicinarsi ai campi di detenzione. Le informazioni le ha fornite chi invece ha avuto accesso, e si tratta di funzionari del partito comunista. L’esistenza di queste «gole profonde», le fughe di notizie su un dossier così scomodo per il regime, confermano che sul trattamento degli uiguri non tutti sono d’accordo neanche tra gli Han (il nome dell’etnìa dominante della Cina) e neppure ai vertici del partito.

Si è saputo che per imporre la sua campagna di arresti in massa, detenzione e rieducazione, Xi Jinping ha dovuto epurare anche i ranghi del suo partito. Alcuni alti dirigenti comunisti nello Xinjiang – pur non essendo uiguri – consideravano un errore calpestare in modo così brutale l’identità dell’etnìa locale. Le rivelazioni fatte arrivare al «New York Times» sono dunque il segnale di una fronda interna, probabilmente non l’unica che si oppone a Xi.

Non sappiamo, per il momento, se qualche dissenso interno al regime di Pechino si sia venuto a creare anche sulla vicenda di Hong Kong. Le sconfitte esterne però non mancano. Anzitutto c’è stata l’elezione di rappresentanti locali. Alla prima occasione di mettere una scheda nell’urna, i cittadini di Hong Kong hanno dato un segnale a favore della protesta democratica e contro Xi.

Pur trattandosi dell’elezione di un consiglio di circoscrizione, dai poteri limitati, sta di fatto che hanno stravinto (con l’80% dei consensi) i candidati legati all’opposizione e favorevoli alle riforme democratiche, mentre sono stati sconfessati quelli schierati con Pechino. Insomma la società civile di Hong Kong non sembra piegarsi al volere di Xi, neanche dopo mesi di scontri che potevano logorare il movimento democratico.

Un’altra sconfitta per la Cina è venuta da Washington. Prima è stato il Congresso a muoversi sulla crisi di Hong Kong, con una legge approvata all’unanimità, Camera e Senato, democratici e repubblicani. Il testo di quel provvedimento prevede sanzioni ad hoc contro tutti quei funzionari cinesi che siano responsabili della repressione violenta contro le manifestazioni di protesta. Inoltre la legge chiede al governo federale un periodico riesame dello status privilegiato di Hong Kong, con l’opzione di revocarlo come ulteriore sanzione per gli abusi. Hong Kong non è equiparata al resto della Repubblica Popolare cinese per il suo accesso al mercato americano, sia per quanto riguarda gli scambi commerciali sia per la finanza.

Rischierebbe dunque un danno economico. Questa legge varata dal Congresso è rimasta per alcuni giorni sulla scrivania di Trump, che non era affatto sicuro di volerla firmare. In passato Trump ha cercato di non mescolare la crisi di Hong Kong con il suo negoziato commerciale. Per lui la priorità è spuntare concessioni sostanziali da Xi sull’import-export, da poter presentare come una vittoria per alcune constituency elettorali decisive (agricoltori e operai del Midwest).

Su Hong Kong in passato Trump è stato cauto, accettando il principio caro ai dirigenti cinesi: «è una questione interna». Alla fine però il presidente americano ha rotto gli indugi ed ha accettato di firmare quella legge, che quindi è entrata in vigore. Con ogni probabilità, si è visto costretto a farlo. Da un lato perché la votazione al Congresso era stata bipartisan e unanime, vanificando così il potere di veto presidenziale. Inoltre Trump rischiava di aprire il fianco ad un’accusa dei democratici, quella di essere troppo arrendevole verso la Cina,nella prossima campagna elettorale. La sinistra è ormai altrettanto intransigente di Trump sulla Cina, se non di più.

L’entrata in vigore della legge sulle sanzioni a Hong Kong è un passaggio soprattutto simbolico. In effetti quella legge lascia ampi margini di discrezionalità all’Amministrazione Trump, sui funzionari cinesi da colpire. Lo stesso vale per le sanzioni economiche, anche quello sono soggette a verifiche che spettano al governo federale. Ma la valenza politica è pesante per Pechino che ha immediatamente protestato, denunciando «l’inammissibile interferenza nella sovranità nazionale». Per Pechino ciò che accade nel territorio di Hong Kong è una questione di ordine pubblico che riguarda i cinesi, e sulla quale noi occidentali non abbiamo né il diritto né tantomeno il dovere di immischiarci.

In questo clima, diventa più problematico raggiungere una tregua nella guerra dei dazi. Trump sperava di strappare concessioni sufficienti prima di Natale. In ballo ci sono nuovi dazi, o aumenti programmati dei dazi in vigore, su un volume di importazioni made in China che valgono 360 miliardi di dollari all’anno. Negli ultimi due mesi si era diffuso un certo ottimismo, che ora sembra lasciare il posto a nuovi segnali di tempesta.