La Catalogna allo scontro finale

Elezioni catalane – Giovedì sarà il momento della verità per sapere chi vincerà la sfida tra secessionisti e unionisti. Il risultato si prospetta molto incerto, ma lo svolgimento del voto non porterà comunque alla risoluzione della crisi istituzionale in tempi brevi
/ 18.12.2017
di Gabriele Lurati

Prosecuzione della sfida indipendentista o ritorno alla normalità costituzionale? Questa è la risposta che dovranno dare i 5,6 milioni di votanti catalani fra tre giorni, quando si celebreranno le elezioni imposte dal governo di Madrid dopo il commissariamento della Catalogna. La posta in palio è grande, soprattutto per le aspirazioni degli indipendentisti, che si giocano molto (se non tutto) con questo voto. 

La contesa si profila tiratissima, dato che i sondaggi danno i due schieramenti quasi alla pari (46% per gli indipendentisti contro il 44% degli unionisti). La differenza la farà probabilmente quel mezzo milione di elettori tuttora indecisi, in una partecipazione al voto che si prevede straordinariamente alta (sopra l’80%). Ci si arriverà dopo una campagna elettorale anomala che è stata incentrata sul tema dell’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione spagnola che ha annullato l’autonomia di cui godeva la regione di Barcellona e, soprattutto, sulle sentenze giudiziarie che ne hanno scandito i tempi e condizionato il dibattito politico.

Gli indipendentisti hanno cercato di trasformare questa consultazione elettorale ufficiale (a differenza del referendum del 1. ottobre scorso considerato illegale dai tribunali spagnoli) di nuovo in un plebiscito. In caso di vittoria darebbero inizio a una nuova «road map» verso l’indipendenza che, nelle loro intenzioni, verrebbe implementata gradualmente. Il problema per i secessionisti consiste però nel fatto che solo un ampio successo elettorale potrebbero garantire loro di continuare con il processo verso l’indipendenza. Se le forze indipendentiste non raggiungeranno la maggioranza dei seggi del Parlament (la cui soglia è di 68 deputati) e soprattutto il 50% dei voti, il procès subirà una brusca frenata perché non sarà più legittimato politicamente. Il fronte secessionista, composto dalla sinistra repubblicana di Esquerra (ERC) e dai nazionalisti moderati del PDeCAT, questa volta si presenta diviso e non più in coalizione, come nelle ultime elezioni del 2015.

Tuttavia i due partiti hanno in comune gli stessi obiettivi: la sospensione dell’applicazione dell’articolo 155 e la liberazione di tutti quelli che loro definiscono «prigionieri politici» (gli ex membri dell’esecutivo catalano tuttora detenuti e i «due Jordi», i leader di due grandi associazioni indipendentiste, anch’essi in carcere). ERC è stata a lungo nettamente il primo partito nei sondaggi (con più del 30% fino a scendere al 23%) ma alla lunga ha pagato l’assenza dalla scena pubblica del suo leader Oriol Junqueras (in carcere dal 2 novembre), finendo per lasciare parte del voto indipendentista agli ex alleati del PDeCAT (stimati in recupero fino al 17%). Questo partito si è compattato attorno alla figura dell’ex presidente dell’esecutivo catalano Puigdemont e si presenta a queste elezioni con il nome di «Junts per Catalunya» (assieme per la Catalogna).

Dopo un inizio un po’ in sordina, questo movimento (che include nelle sue liste anche esponenti della società civile) ha goduto del cosiddetto «effetto Puigdemont». L’ex presidente in esilio, seppur a distanza, è stato molto attivo in questa campagna elettorale, mandando messaggi in videoconferenza dal Belgio, comunicando via Twitter e concedendo interviste a network catalani o stranieri (ma mai a quelli spagnoli). Puigdemont inoltre si è detto disposto a correre il rischio di finire in carcere nel caso in cui vincesse le elezioni e fosse investito come presidente della Generalitat. L’ultima fazione del fronte secessionista è composto dal movimento anti-capitalista CUP che con i suoi 10 seggi era stato fondamentale per la nascita del governo di Puigdemont due anni fa, ma che questa volta è dato in calo nei sondaggi (al 6%).

Nell’altro campo si schierano le forze unioniste, composte dai partiti che hanno votato a favore del commissariamento della regione: Ciudadanos, Partito socialista catalano e Partito popolare (in ordine di peso politico in Catalogna). I liberali di Ciudadanos, capitanati nella regione di Barcellona dalla giovane Inés Arrimadas, sono stati quelli che più hanno cavalcato l’anti-indipendentismo e sono riusciti a portare in strada la famosa «maggioranza silenziosa», che prima era restia a manifestare pubblicamente la propria contrarietà al secessionismo. Arrimadas, cresciuta in Andalusia e trapiantata a Barcellona solo da una decina d’anni, è stata una dei principali protagonisti dei duelli televisivi della campagna elettorale. Puntando su un unico e chiaro obiettivo come quello di mettere fine al procès, è riuscita ad attirare le simpatie dei votanti di quell’elettorato urbano emigrato in Catalogna dal resto della Spagna e stufo della narrazione filo-indipendentista che imperversa sulle emittenti catalane. Stando ai dati di alcuni istituti demoscopici, Ciudadanos potrebbe addirittura contendere a Esquerra Republicana il posto di primo partito catalano, prendendo voti sia dall’elettorato socialista (dato al 16%) sia soprattutto da quello del Pp (7%).

La polarizzazione (pro o contro l’indipendenza) è stata il leitmotiv di questa campagna elettorale e chi ha scelto di stare nel mezzo ne ha pagato il prezzo in termini di scarso reddito elettorale. È il caso di «Catalunya en Comú-Podem», la versione catalana della sinistra radicale di Podemos, che ha cercato di tenersi equidistante dai due schieramenti. Paradossalmente, però, saranno proprio i «podemiti» catalani (con il loro 10% in intenzioni di voto) ad avere le chiavi per favorire la nascita di un governo, secondo molti analisti. In ogni caso, chiunque sia il partito vincitore delle elezioni, si troverà a dover affrontare un lungo e tortuoso percorso di negoziazioni con altre forze politiche, prima di poter arrivare a formare un nuovo esecutivo. Ma questo sarà solo il prossimo capitolo di una crisi istituzionale che sembra destinata a protrarsi ancora a lungo.