La cancellazione delle donne

Mentre le afgane perdono i diritti in Pakistan si rafforza il modello tradizionale
/ 27.09.2021
di Francesca Marino

Giù le mani dai miei vestiti. Così, con l’ashtag #DoNotTouchMyClothes, le donne afgane davano il via a una campagna sui social media per contrastare l’immagine decisamente scioccante di una manifestazione di ragazze e donne «a sostegno dei talebani» organizzata a Kabul dai nuovi padroni dell’Afghanistan. Le immagini hanno fatto il giro del mondo: una processione di signore e signorine paludate di nero, con degli indumenti che cancellavano ogni traccia di sembianza umana dal volto e dal corpo di chi li indossava. Degli indumenti che, secondo afgane, iraniane, arabe o pakistane, non trovano alcun riferimento culturale in nessun Paese dell’area geopolitica. L’unico riferimento culturale possibile, è stato detto, sono i Dissennatori di Harry Potter.

L’abito imposto dai talebani, e distribuito secondo molte testimonianze con la forza, a ragazze e signore costrette poi a sfilare, non esiste nella tradizione dell’Afghanistan, del Pakistan e nemmeno dell’Arabia Saudita. Non è un burqa, non è un hijab, non è un abaya (lungo camice), non è nulla di conosciuto. Eppure le polemiche sono state molte. Le migliaia di afgane che postavano le loro foto in abiti tradizionali, abiti colorati e veli leggeri, sono state attaccate violentemente via social media. E, in Afghanistan, spesso anche fisicamente. Sui social media i più strenui difensori di quella che è ormai nota come Dementor suit (il vestito da Dissennatori), sono manco a dirlo tutti uomini. E tutti pakistani. Che invocano, a suon di versetti del Corano, la cancellazione totale non soltanto di ogni sembianza femminile ma anche delle donne dalla società.
È ormai ufficiale che le donne non potranno tornare a scuola, che sarà loro impedito di lavorare e di manifestare, come avevano cominciato a fare nelle scorse settimane. Il nuovo ministro degli Interni, il terrorista Sirajuddin Haqqani su cui pende una taglia di 10 milioni di dollari, ha vietato ogni manifestazione di protesta. Sono ammesse soltanto quelle «spontanee» a sostegno del Governo. Le virgolette sono d’obbligo, visto che quando nemmeno la forza è sufficiente i talebani offrono alle donne denaro oppure delle «lettere di minaccia» da adoperare per cercare di ottenere un visto per l’estero. Intanto donne e ragazze vivono nascoste.

Anche coloro che non hanno mai fatto politica o non hanno mai protestato sono terrorizzate all’idea di essere maritate a forza a un «protettore della fede» con tanto di barbone e kalashnikov. Terrorizzate all’idea di essere inghiottite dentro a un buco nero di silenzio e di invisibilità nel momento in cui i riflettori dell’Occidente fatalmente si spegneranno e loro saranno ancora una volta lasciate a fare i conti con la vita sotto i talebani. Nel Governo è ricomparso il sinistro Ministero del vizio e della virtù, quello che, tanto per ricordarlo, lapidava le adultere in piazza e schiacciava contro un muro con i camion gli omosessuali. Cercare sostegno da parte di chi manovra i talebani e al contempo chiede soldi all’Occidente per fronteggiare le migliaia di rifugiati create dai talebani stessi, cioè cercare sostegno dal Pakistan, è follia pura.

Il primo ministro Imran Khan loda da tempo la bontà del burqa e affini (che la sua ultima moglie indossa regolarmente), perché lo trova una formidabile arma di difesa contro lo stupro. Secondo Imran Khan, difatti, lo spaventoso tasso di violenza nei confronti delle donne in Pakistan è da attribuirsi ad abbigliamento e costumi occidentali: «In fondo gli uomini non sono mica robot», ha dichiarato commentando uno dei casi più efferati. E, quanto alle donne sotto i talebani e all’istruzione, ha trovato una ricetta infallibile. «Gli afgani hanno finalmente spezzato le catene della schiavitù», ha commentato all’indomani della presa di Kabul, lanciando un nuovo programma di studi unificato per le scuole pakistane, che spezzi le catene della schiavitù culturale dall’Occidente. Sui libri di testo si vedono papà e figlio maschio seduti sul divano in abiti occidentali mentre il resto della famigliola felice, mamma e figlia, siedono per terra vestite in abiti tradizionali e con il capo coperto.

All’interno degli stessi libri di testo si cerca di far passare, in modo nemmeno tanto velato, che il ruolo delle donne nella società, a parte fare figli e curare la casa, sia quello di «sostegno» a mariti e fratelli. La parte sana della società, quella che difende i diritti della donne, quella che vive nel ventunesimo secolo, è inorridita, ma a chi interessa? Propagandare un malinteso concetto di religione, contestato anche da molti religiosi, è uno dei mezzi con cui si cerca di legittimare come «tradizionale» e fondato su valori comuni il Governo di terroristi che siede a Kabul. Diffamare e insultare le afgane che postano i loro abiti tradizionali, cercando di far passare per cultura imposta dall’Occidente quella che è in realtà una millenaria cultura locale, è l’ennesimo modo per dare al resto del mondo un messaggio di unità e conformità. Di creare una cultura condivisa su base religiosa, che giustifichi tutte le nefandezze figlie del terrorismo e della violenza e che giustifichi, soprattutto, la legittimità della presa di potere dei talebani voluti, nella narrativa pakistano-talebana, dal popolo afgano perché figli della cultura locale. Sia i talebani che Imran Khan e i suoi sostengono adesso che i diritti fondamentali delle donne non sono certo il problema più urgente dell’Afghanistan. Vero. A essere in gioco, sono i diritti di tutti gli afgani. Uomini, donne e bambini. Il diritto alla libertà individuale, il diritto di essere ateo o religioso. Il diritto di scegliere, soprattutto.