La Brexit può attendere

L’imbarazzo di Londra – Theresa May, dopo le mancate intese per raggiungere una maggioranza parlamentare favorevole, ha annunciato che presenterà un nuovo piano al Parlamento a partire dal 3 giugno, con l’obiettivo di completare il percorso del divorzio dall’Ue entro inizio luglio e prima della pausa estiva
/ 20.05.2019
di Cristina Marconi

C’è un imbarazzo tutto britannico nella maniera in cui il Regno Unito si sta dirigendo verso le elezioni europee. I grandi partiti le stanno ignorando come se questo potesse attutire il peso della sconfitta, ampiamente anticipata dai sondaggi e dai risultati delle elezioni locali del 2 maggio scorso, mentre gli unici a sfregarsi le mani sono i partiti di protesta euroscettici, condannati all’oblio quando la Brexit sembrava un obiettivo ormai raggiunto e resuscitati in grande stile da quasi tre anni di indecisione e paralisi politica. L’appuntamento alle urne, come sempre nel Regno Unito, cadrà di giovedì, il 23 maggio per l’esattezza, e come estremo oltraggio per un Paese che voleva sbattere la porta e andare via, i risultati non verranno resi noti che la sera del 26, quando tutti gli Stati membri dell’Unione europea avranno concluso le operazioni di voto.

Non si poteva fare altrimenti: i tentativi della premier Theresa May di vedere approvato un accordo al Parlamento prima del rinnovo dell’assemblea di Strasburgo sono falliti miseramente e anche l’ultima speranza di far passare nelle prossime settimane il testo concordato nel lontano novembre 2018 con Bruxelles non nasce sotto una buona stella. La Lady di Gomma, impermeabile all’esperienza, lo porterà di nuovo in aula nella settimana del 3 giugno. La precisazione del sottosegretario della Brexit Stephen Barclay fa quasi sorridere tanto è lapalissiana – «Se i Comuni non lo approvano, l’accordo di Barnier, in questa forma, è morto» – ma il fatto stesso che ci sia bisogno di ribadirlo mostra quanto la situazione sia ormai deteriorata.

L’accordo della May è già passato attraverso tre bocciature, e di quelle sonore: a metà gennaio, a metà marzo e a fine marzo, il 29, proprio il giorno in cui il Paese sarebbe dovuto uscire dalla Ue in base ai calcoli ottimistici del 2017, quando chi osava dire che due anni per districare Londra da Bruxelles fossero troppo pochi veniva accusato di essere un inguaribile pessimista. Solo grazie al rinvio concesso dal Consiglio Ue fino al 31 ottobre è stato possibile per il governo evitare quel «no deal» che nessun politico responsabile, a partire dall’inquilina di Downing Street, auspica.

Ma neppure sull’utilizzo da fare di questi tempi supplementari c’è accordo tra le forze politiche e i negoziati tra governo e opposizione sono fermi, come fermo è il dialogo tra le varie fazioni dei principali partiti, col risultato che ancora una volta è la posizione della May ad essere in bilico, con nuovi appelli alle dimissioni, come se lo stallo dipendesse da lei e non da chi non ha saputo proporre e difendere una strada alternativa comprensiva di una soluzione per evitare il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord.

Ora il Labour sostiene di temere di raggiungere un accordo che un nuovo premier, magari l’inviso Boris Johnson, potrebbe ribaltare appena arrivato a Downing Street e chiede rassicurazioni sul fatto che qualunque concessione, di cui fino ad ora non si è vista l’ombra, venga tutelata in futuro. Una questione importante, ma marginale rispetto alla confusione con cui è stato affrontato il negoziato.

Visto che le elezioni non si possono evitare, l’obiettivo dei principali partiti è quello di scongiurare almeno che i deputati britannici, una volta eletti, debbano sedere a Strasburgo: l’ultima speranza è che l’intero processo di ratifica di un eventuale accordo avvenga prima del 2 luglio, quando si terrà la sessione plenaria inaugurale del nuovo europarlamento. Non sono gli unici a sperarlo, i britannici: anche negli altri Stati membri sono in pochi a volere vedere arrivare gli eletti di un Paese in cui il Brexit Party di Nigel Farage sarebbe vicino al 30% secondo i sondaggi. L’ex leader dello Ukip ha deciso di dedicare il suo tocco magico populista a creare una nuova realtà politica per prendere le distanze dallo sguaiato dibattito, apertamente razzista e dilettantesco, in corso nel suo ex partito, crollato dal 26% al 3%, e per catturare i voti di una classe media, conservatrice o laburista, che voleva la Brexit e non l’ha ancora avuta.

In queste condizioni, neppure ai remainers piace questo voto europeo, senza garanzie e senza prospettive di rimanere nella Ue a lungo termine. Secondo la media dei sondaggi condotti da YouGov, ComRes, Opinium e Survation, questi ultimi sarebbero orientati verso formazioni piccole e dalla linea più decisa rispetto al Labour di Jeremy Corbyn, che prenderebbe comunque il 25%, tantissimo solo se confrontato con lo scarno 14% dei Tories, il risultato più basso mai raggiunto da un partito di governo. Dai sondaggi però il sostegno per Change Uk, il movimento di «ribelli» a favore del remain, è solo dell’8%, mentre è cresciuto quello nei confronti dei LibDem, resuscitati dalla drammatica esperienza di governo con i Tories con un promettente 10%. Se a questi si sommano i voti europeisti dei Verdi, al 7%, e delle forze regionali di Snp/Plaid Cymru, si arriva a un 29% di pro-Ue, contro il 32% di Brexiteer. Dal conteggio mancano Labour e Tories, di cui non si sa ancora da che parte stiano. Un dettaglio che gli elettori, dopo tre anni di paralisi e mentre proseguono trattative sfiatate, non hanno potuto fare a meno di notare.

Con 73 eurodeputati da eleggere, come nella legislatura del 2014-2019, il Regno Unito ha posto un problema logistico enorme per la Ue. La soluzione è che appena fatta la Brexit il numero di seggi a Strasburgo calerà da 751 a 705 e i 27 seggi restanti, lasciati liberi dai britannici, verranno riallocati tra gli altri paesi. Che Londra diventi capofila degli euroscettici e dei populisti del Parlamento Ue non sarebbe una novità: nel 2014 Ukip era già il primo partito, con 24 seggi contro i 20 dei laburisti e i 19 dei Tories, e quest’anno i sondaggi lasciano presagire che i deputati sovranisti di tutti i paesi potrebbero essere il 35% del totale.

In particolare, gli esperti sottolineano la possibilità che questa volta ci sia una diversa cooperazione tra le varie anime nazionali di un unico fenomeno, dando vita a quel fronte unitario euroscettico in grado di influenzare in maniera massiccia le politiche Ue e tenendo sotto scacco i partiti centristi, sul modello di quanto avvenuto in passato quando l’ex premier britannico David Cameron cedette alle pressioni e decise di indire un referendum sulla Brexit. Con i risultati che conosciamo.

La soluzione, per molti governi nazionali, potrebbe essere quella di sminuire l’importanza di Bruxelles e Strasburgo in modo da togliere ossigeno ai movimenti di protesta che hanno trovato spazio all’europarlamento e finendo con l’indebolire ancora di più un’Europa al crocevia. La Brexit è un «cautionary tale», una storia da cui trarre un grande insegnamento per i sovranisti e i populisti: realizzare l’uscita dalla Ue è un processo troppo complesso e divisivo, mentre mantenere alta la pressione per ottenere un rientro dei poteri a livello nazionale e una maggiore chiusura può sedurre l’elettorato senza costringere ad anni di negoziati distruttivi sull’uscita. Negoziati che, come insegna Londra, hanno un esito tutt’altro che certo e soprattutto segnano la fine dei partiti euroscettici, privandoli di uno scopo.

Fortuna che in questo quadro così cupo e imprevedibile c’è chi, come il presidente del Consiglio Donald Tusk, continua ad essere ottimista e a dire che non solo c’è un 30% di possibilità che la Brexit non avvenga, con un secondo referendum dall’esito probabilmente diverso da quello del 23 giugno del 2016. Per lui «la Brexit ha risvegliato un movimento europeista nel Regno Unito», e su questo si può anche essere d’accordo. Il problema è che ne ha risvegliato, rafforzato e motivato uno euroscettico nel resto del Continente.