Ormai da tre anni è fuori dall’Unione europea, ma sull’opportunità della Brexit il Regno Unito sta cambiando opinione. Nella percezione comune si è ormai fatta strada l’idea che i danni dell’uscita siano superiori a quei costi della permanenza che motivarono la vittoria del «leave» sul «remain». Di fatto, i britannici hanno sempre avuto con l’Unione rapporti tempestosi. Mezzo secolo fa l’ingresso nell’allora Comunità economica europea (CEE) fu negoziato quasi all’insaputa di un’opinione pubblica che si sapeva in larga misura ostile. Lo era fin da quando, all’inizio degli anni Sessanta, il Governo di Londra cominciò a bussare alla porta di Bruxelles. La prospettiva di aggregarsi al carro dei «continentali» non entusiasmava affatto gli abitanti delle isole britanniche.
Del resto avevano un insospettabile alleato oltre Manica. Infatti il generale Charles de Gaulle, presidente della Repubblica francese, dell’adesione inglese non voleva nemmeno sentir parlare. Considerava la Gran Bretagna un cavallo di Troia degli Stati Uniti, che a Bruxelles avrebbe remato contro. Premonizione tutt’altro che infondata, visto come sono andate le cose. Fatto sta che per ben due volte la Francia di de Gaulle oppose il veto alla candidatura del Regno Unito. La prima nel 1961, la seconda sei anni più tardi. Furono così affossate le richieste di adesione che avevano portato avanti rispettivamente il primo ministro conservatore Harold Macmillan e il laburista Harold Wilson.
Bisognò aspettare il 1969 perché il progetto potesse ripartire. In un referendum indetto da de Gaulle, che chiedeva ai francesi il consenso a una riforma del Senato e alla regionalizzazione della Repubblica, gli elettori voltarono le spalle al generale. De Gaulle aveva assicurato che in caso di sconfitta se ne sarebbe andato e mantenne la parola: nell’aprile un secco comunicato dalla sua residenza di Colombey-les-Deux-Églises segnalò alla Francia e al mondo che il fondatore della Terza Repubblica usciva di scena. E così poté ripartire il negoziato per l’adesione inglese. Il nuovo presidente Georges Pompidou riavviò la procedura mentre un primo ministro conservatore, Edward Heath, succedeva a Wilson.
Ormai la via verso l’ingresso britannico nella CEE era sgombra, nonostante i persistenti malumori dell’opinione pubblica inglese di fronte a una trattativa che Heath e Pompidou conducevano al riparo dalle luci della cronaca. Si discutevano anche le candidature di Irlanda, Danimarca e Norvegia, Paesi legati all’economia britannica e dunque interessati a seguire il destino di Londra. Ma c’erano altri problemi sul tappeto. Prima di tutto la CEE stava cambiando pelle: aveva cominciato a compiere quei passi in materia d’integrazione che un giorno culmineranno nella sua trasformazione in Unione europea. Inoltre bisognava considerare certi retaggi storici, come la relazione speciale con gli Stati Uniti e soprattutto i complessi rapporti di Londra con i Paesi del Commonwealth.
Dopo che una serie di deroghe ebbe più o meno appianato questi ostacoli, si arrivò nel gennaio del 1972 al trattato di adesione del Regno Unito, dell’Irlanda e della Danimarca, che un anno più tardi entravano nella Comunità. La Norvegia si sottrasse all’impegno europeo: un referendum respinse la prospettiva comunitaria. Questi tre ingressi furono il primo allargamento della Comunità, che prima di allora contava solo i sei soci fondatori (Germania, Francia, Italia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo) e si sarebbe estesa fino a comprendere un giorno ventisette Paesi, popolati da 450 milioni di abitanti. Nei quasi cinquant’anni che hanno visto i rappresentanti del Regno Unito avvicendarsi nei palazzi dell’Europa, una celebre battuta di Margaret Thatcher, premier conservatrice nel decennio degli Ottanta, riassunse un rapporto Londra-Bruxelles molto spesso conflittuale e ai limiti della rottura. «I want my money back!», voglio indietro i miei soldi, esclamò la signora di ferro. Era il settembre 1979, pochi mesi prima un netto successo elettorale dei conservatori aveva proiettato Thatcher a Downing Street.
E così il Consiglio europeo riunito a Dublino dovette vedersela per la prima volta con la grintosa prima ministra di sua maestà, che considerava le rigide politiche europee un ostacolo alle sue scelte sfrenatamente liberiste. Il denaro di cui pretendeva la restituzione era la differenza, che considerava eccessiva, fra le somme sborsate da Londra per il bilancio comunitario e quelle incassate come sussidi all’agricoltura. In un certo senso fu proprio Thatcher a gettare il seme della Brexit, destinata una trentina d’anni più tardi a dominare le cronache. Il voto che il 23 giugno 2016 decretò l’abbandono dell’Unione, formalmente effettivo dal 31 gennaio 2020, rivelava una netta frattura nell’opinione pubblica. Nelle grandi città a cominciare da Londra prevalse l’Europa, condannata dal voto massiccio della provincia. Inoltre parve minacciata la coesione del Regno Unito: percorsa da fermenti indipendentisti, la Scozia votò per la permanenza, una scelta diretta contro Londra prima ancora che a favore di Bruxelles. Altrettanto fece l’Irlanda del Nord, che nell’uscita vedeva minacciata la stretta relazione con l’Irlanda. Complessivamente 52 elettori su cento voltarono le spalle all’Europa.
Poi il vento ha cambiato direzione. Un sondaggio del quotidiano online «The Independent» rivela che a sette anni dal voto, a tre dal congedo effettivo, l’atteggiamento popolare verso l’Europa ha compiuto una svolta, fino a ipotizzare una drastica correzione di rotta. Nel Paese aggredito da una crisi che si avvita su sé stessa (il FMI stima che nel 2023 il Regno Unito avrà la crescita più bassa fra i membri del G20) e di cui la Brexit è considerata corresponsabile, due terzi dei cittadini hanno auspicato un referendum per negoziare il rientro nell’Unione. Il primo ministro Rishi Sunak, che ha raggiunto una controversa intesa con Bruxelles sulla questione irlandese, non cessa di decantare la «straordinaria opportunità» offerta dall’addio all’Europa. Ma molti fra i suoi non sono affatto d’accordo: conservatori e laburisti stanno cercando insieme il modo di rimediare all’«errore» del 2016. Non sarà facile, la strada è tutta in salita.