La bomba del Russiagate

Crisi istituzionale – Il Dipartimento di Giustizia ha affidato all’ex capo Fbi Robert Mueller l’indagine sulle connessioni sulle connessioni tra l’entourage del presidente Trump e il governo di Putin
/ 22.05.2017
di Federico Rampini

Dieci giorni di fuoco hanno fatto precipitare Donald Trump in una crisi istituzionale senza precedenti. Martedì 9 maggio è la data d’inizio di questa bufera: il giorno del controverso licenziamento in tronco per James Comey capo dell’Fbi, sgradito per come gestiva l’indagine sul Russia-gate e in particolare sull’ex consigliere militare di Trump, Michael Flynn. Appena l’indomani, mercoledì 10, su insistenza personale di Vladimir Putin il presidente riceve nello Studio Ovale della Casa Bianca il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e il suo ambasciatore. Lunedì 15, scoop del «Washington Post»: Trump in quell’incontro ha rivelato notizie top secret sull’Isis, fornite dall’intelligence israeliana e senza il suo permesso. Prima la Casa Bianca smentisce poi Trump ammette e rivendica: è un mio diritto. Martedì 16 il «New York Times» rivela le pressioni fatte a febbraio da Trump su Comey per abbandonare l’inchiesta su Russiagate e Flynn. La Casa Bianca nega ma l’ex capo dell’Fbi può esibire meticolosi memorandum, appunti e trascrizioni. Mercoledì 17 in un discorso all’accademia navale della Coast Guard Trump lamenta: «Nessun presidente nella storia è stato trattato male come me». Ma aggiunge: «Continuerò a lottare, non mollo». La sera stessa di quel giorno arriva l’annuncio della nomina di uno «special counsel “che prende in mano l’indagine sul Russiagate. La prima reazione di Trump è composta ma non dura molto: l’indomani torna a inveire contro l’indagine definendola «caccia alle streghe».

Anche perché le rivelazioni si susseguono, compresa un’accusa di provenienza repubblicana. Un mese prima che Trump vincesse la nomination del suo partito, Kevin McCarthy, leader della maggioranza e (oggi) uno dei suoi alleati al Congresso, fece un’affermazione politicamente esplosiva in una conversazione privata a Capitol Hill con alcuni parlamentari repubblicani e di cui esisterebbe una registrazione ascoltata e verificata dal Washington Post: «Penso che Putin paghi Trump». McCarthy pronunciò la frase lo scorso 15 giugno, in piena campagna elettorale e quindi in una fase in cui si moltiplicavano i colpi bassi tra questo o quel candidato alla nomination repubblicana.

Ma da mercoledì scorso tutti gli occhi sono puntati su colui che fu capo dell’Fbi sotto George W. Bush, Robert Mueller, e che ora ha in mano l’indagine sul Russiagate. È lui che il Dipartimento di Giustizia ha nominato nel ruolo di «special counsel», una sorta di super-procuratore indipendente, per portare avanti l’indagine sulle connessioni tra l’entourage del presidente e il governo di Putin. Formalmente la nomina dello «special counsel» può essere un passaggio preliminare che sfocia nella procedura dell’impeachment. Ma nei rari casi in cui l’impeachment è stato tentato (solo due nella storia), è dalla Camera che parte la richiesta al Dipartimento di Giustizia di nominare lo «special counsel». Inoltre nel caso della nomina di Mueller non è sotto inchiesta il presidente stesso, almeno per ora. Si tratta invece di dare un marchio di credibilità e di indipendenza alla gestione di un’inchiesta che è stata destabilizzata e politicizzata dalle ultime polemiche.

Va sottolineato anche il fatto che la sera del 17 maggio Trump è stato informato di questa nomina dopo che era stata decisa, e solo un’oretta prima che la notizia diventasse di dominio pubblico; la paternità della decisione è del vice-ministro della Giustizia Rod Rosenstein poiché il ministro Jeff Sessions è sfiorato anche lui dai sospetti sul Russia-gate e si è dovuto ricusare da tutta la vicenda. Dunque è stato il Dipartimento di Giustizia a firmare questo atto molto impegnativo, senza direttive dalla Casa Bianca.

La scelta di Mueller è politicamente abile: lui si guadagnò un ampio rispetto bipartisan quando guidava l’Fbi durante l’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle. Al punto che alla scadenza del suo mandato decennale, Barack Obama fece la mossa inusuale di chiedergli un prolungamento di altri due anni. Così Mueller, che oggi ha 72 anni, divenne il capo della Cia più longevo dopo il mitico Edgar Hoover.

Per un capo dell’Fbi fu anche insolitamente garantista: Mueller ebbe un memorabile scontro con la Casa Bianca di Bush perché si opponeva alle intercettazioni effettuate senza un mandato dei giudici.

La decisione di nominarlo a questo punto sembra orientata a rintuzzare gli attacchi concentrici su Trump che vengono su due fronti: da un lato le accuse sul licenziamento di Comey, dall’altro gli appelli dei democratici per l’avvio di un impeachment vero e proprio. Di certo serve a guadagnare tempo: ora l’indagine sul Russiagate ha un supervisore di alta competenza e credibilità; e l’esistenza stessa dello «special counsel» lascia qualche speranza a tutti coloro che al termine di questo percorso vorrebbero che l’indagato fosse il presidente in persona.

Su una cosa non ci si deve illudere, però: i tempi di lavoro di uno «special counsel» sono lunghi, questa vicenda si dipanerà per molti mesi, forse potrebbe arrivare fino alle elezioni di mid-term del 2018. Un altro aspetto che dovrebbe piacere a Trump: Mueller ha fama di essere molto intransigente contro le fughe di notizie e le «gole profonde». Forse smetteranno gli scoop sui giornali provenienti dall’interno della Casa Bianca, che tanto hanno esasperato il presidente?

Lo «special counsel», anche se è previsto come attore iniziale nella procedura che sfocia nell’impeachment, può essere nominato d’iniziativa del governo stesso come in questo caso: ma accadde una volta sola nella storia, quando il Dipartimento di Giustizia di Bill Clinton (ministra Janet Reno) nominò uno «special counsel» per indagare se il governo avesse commesso reati durante l’assalto dell’Fbi al fortino di Waco (Texas) occupato da una milizia dell’estrema destra. L’indagine si consluse assolvendo il governo di allora da ogni colpa. 

È una figura solo parzialmente indipendente dall’esecutivo. Lo stesso presidente potrebbe revocare l’incarico allo «special counsel», anche se un gesto simile ricorderebbe in modo sinistro ciò che fece Richard Nixon con gli inquirenti del Watergate.

Interessante il ruolo del vice-ministro della Giustizia. Già sotto accusa per essere colui che firmò formalmente il licenziamento di Comey dall’Fbi, secondo alcuni Rosenstein stavolta avrebbe voluto rifarsi una verginità politica in una fase di incertezza sul futuro di Trump.

Tutti d’accordo nell’elogiare Robert Mueller… o quasi. Arrivò alla guida dell’Fbi solo pochi giorni prima dell’11 settembre. L’attentato alle Torri Gemelle provocò tali critiche all’operato della polizia federale e dell’intelligence, che molti volevano smembrare l’Fbi. Lui la salvò dalla rovina. È repubblicano ma molti democratici (con qualche eccezione di rilievo: Nancy Pelosi capogruppo alla Camera) hanno approvato la sua nomina. Il mandato di Mueller: inizialmente si tratta di riprendere in mano l’indagine sulle interferenze russe nella campagna elettorale, deragliata dal licenziamento di Comey. Però Mueller avrà facoltà di estendere l’indagine ad eventuali rapporti tra la Russia e gli uomini di Trump anche dopo le elezioni. Dunque perfino includendo il controverso licenziamento di Comey, le pressioni per insabbiare l’indagine ecc.

Per il momento questa nomina dovrebbe placare la tempesta politica e consente a Trump di tornare ad occuparsi della sua agenda politica che è stata sconvolta e oscurata dagli scandali. Però sul Russiagate continuano a indagare le due commissioni parlamentari di Camera e Senato, resta fissata l’audizione di Comey il 24, proprio nel giorno in cui Trump incontra papa Francesco in Vaticano. Inoltre l’esistenza di un procuratore con ampi poteri d’indagine può diventare una spina nel fianco permanente per questa amministrazione. All’interno del governo molti vivranno nell’attesa che Mueller chieda carte, documenti, testimonianze relative all’indagine. E nonostante il filo diretto che lega l’Amministrazione Trump a Mueller, l’autonomia di quest’ultimo non preclude l’ipotesi che la conclusione della sua inchiesta possa inguaiare lo stesso presidente. 

È in secondo piano rispetto alle notizie-shock che vengono dalla politica, ma la settimana degli scandali preoccupa Wall Street: in calo indici azionari e dollaro. Coincide inoltre con segnali di crisi nell’industria dell’auto: calo delle vendite, 4.000 licenziamenti alla General Motors, 1.400 licenziamenti alla Ford. È un problema per Trump, sceso al 38% dei consensi (un minimo per un presidente al quarto mese), perché i voti dei metalmeccanici di Detroit furono decisivi l’8 novembre per spalancargli le porte della Casa Bianca. Più in generale la crisi istituzionale sta rinviando quei cantieri di riforme su cui Trump puntava per consolidare l’alleanza con l’establishment economico, rilanciare la crescita e l’occupazione. La riforma fiscale per ridurre le tasse, quella sanitaria, i ri-negoziati dei trattati commerciali, tutto è in stand-by, in attesa che il presidente superi questa tempesta. 

Va ricordato infine che di tutta questa tempesta esiste una «versione alternativa» sui media di destra. In quel mondo è ben diversa la narrazione che domina in questi giorni. Trump è vittima di congiure che nascono dentro il «Deep State»: così il suo consigliere estremista Stephen Bannon definì i poteri occulti annidati dentro il governo federale, dall’intelligence ai vertici ministeriali, ovviamente tutti sospettati di essere obamiani. I social media dell’estrema destra hanno anche costruito un teorema complottista sulla morte di un oscuro attivista democratico, che avrebbe contattato WikiLeaks poco prima di essere assassinato: secondo loro era una gola profonda che stava per rivelare nuove infamie del suo partito.