Nei «Pandora Papers», ricerca internazionale sui segreti finanziari di governanti e affini, si legge, tra le altre cose, che la moglie del generale in pensione (ed ex-braccio destro dell’allora presidente pakistano Musharraf) Shafaat Ullah Shah ha acquistato nel 2017 un appartamento da 1,2 milioni di dollari a Londra. L’immobile era stato venduto alla signora da Akbar Asif, figlio del famoso regista indiano K. Asif. Storie di ordinaria corruzione? Non proprio e non solo. Perché la sorella di Akbar, Heena Kausar, è la vedova di Iqbal Mirchi: uno degli esponenti di maggior spicco della D-Company. Che non è soltanto un’organizzazione criminale di stampo mafioso, ma fa parte a tutti gli effetti della lista ufficiale dei gruppi terroristi stilata da Washington e convalidata da una risoluzione delle Nazioni unite. La D-Company è capeggiata da Dawood Ibrahim, boss da anni in cima alla lista dei ricercati di India e Cia. E Ibrahim è noto ai più soprattutto per i suoi legami con Bollywood, l’industria cinematografica indiana. Anche la sua storia sembra, in effetti, presa di peso da un film.
Fino agli anni Ottanta, riciclare denaro ricavato dal contrabbando d’oro investendo nella produzione di film era più o meno la norma per i mafiosi residenti a Dubai, in Malesia o negli Emirati. Durante quegli anni anche un giovane e ancora sconosciuto piccolo malvivente di nome Dawood Ibrahim abbandona l’India per sfuggire alla polizia e si rifugia nei Paesi del Golfo dove intraprende una redditizia e fortunata carriera entrando nel business del contrabbando d’oro. Passando dall’essere un delinquente di mezza tacca a ricoprire l’ambito ruolo di «don», con tanto di famiglia alle sue dipendenze, e diventando l’amante ufficiale di Mandakini, attrice allora famosa per aver interpretato la dea Ganga in un celebre film. Finanziare e produrre film diventa così una fetta importante dell’attività della famiglia di Ibrahim. Che entra non soltanto nella produzione delle pellicole, ma gestisce le royalties della vendita sui mercati esteri e decide perfino la scelta degli attori e la distribuzione dei ruoli. Il 12 agosto 1997, però, Gulshan Kumar, un produttore musicale, viene assassinato. Il mandante dell’omicidio si chiama Abu Salem ed è il braccio destro di Dawood Ibrahim. Che era a questo punto della storia già stato accusato, oltre che dell’omicidio di Kumar, di essere il mandante dei sanguinosi attentati terroristici del 1993 a Bombay (poi Mumbai). Oltre a Salem, nello stesso caso viene coinvolto per favoreggiamento anche Sanjay Dutt, stella di prima grandezza del firmamento bollywoodiano e figlio di un politico del partito del Congresso.
L’omicidio di Kumar scoperchia un vero e proprio vaso di Pandora e segna il principio di una stagione sanguinosa di guerra tra gli assistenti di Ibrahim e di estorsioni, ricatti, omicidi ai danni di attori e produttori. Nel frattempo Dawood Ibrahim, residente ormai a Karachi, in Pakistan, è entrato nel business del traffico di droga, nel settore immobiliare, nelle scommesse su incontri di cricket truccati e nel settore del credito parallelo. Articoli apparsi all’epoca sostengono che Ibrahim finanziasse annualmente le attività dell’Isi, l’intelligence di Islamabad, e che avesse addirittura prestato denaro al Governo per acquistare sottobanco tecnologia nucleare dalla Cina e dalla Corea del Nord. A Karachi Ibrahim continua a finanziare le attività terroristiche della Lashkar-e-Toiba ed è entrato in affari con un’organizzazione allora poco nota chiamata Al Qaeda e gestita da Osama bin Laden, altro ricco uomo d’affari con interessi nel mondo della malavita e con l’idea fissa della supremazia islamica. Provvisto di una serie di passaporti falsi, si dice, dallo stesso Governo pakistano, Ibrahim vive indisturbato nonostante le ripetute richieste di estradizione. Dopo il crollo delle Torri gemelle, gli Stati uniti hanno inserito Ibrahim nella lista dei terroristi ricercati a livello internazionale. Nel 2008 e nel 2009 il boss è stato messo dalla rivista «Forbes» al quarto posto nell’elenco degli uomini più ricercati del pianeta e al cinquantesimo nella lista degli uomini più potenti del mondo.
Secondo la stampa locale il boss vive «come un re» nella sua residenza pakistana, circa seimila metri quadri completi di piscine, campi da tennis, sala giochi, palestra e via dicendo. Ibrahim, secondo la scheda a suo nome rilasciata dall’Interpol, è alto un metro e 77, bruno e grassoccio, indossa abiti firmati e sfoggia un orologio di lusso da mezzo milione di rupie. Nonostante gli anni, pare che abbia conservato intatta la sua passione per stelline e prostitute d’alto bordo, che fanno a gara per essere oggetto della leggendaria munificenza del boss. Nel 2005 una delle sue figlie ha sposato, con un matrimonio da favola che sembrava uscito da una pagina de Il Padrino, il figlio di Javed Miandad, una leggenda del cricket pakistano.
Secondo l’intelligence indiana, il boss sarebbe anche coinvolto nell’organizzazione logistica degli attacchi a Mumbai del 26 novembre 2008. E anche nelle investigazioni sulla strage, oltre al nome di Dawood, è spuntato, come contatto a Mumbai dell’agente doppiogiochista David Headley, un nome legato al mondo del cinema, quello di Rahul Bhatt, figlio del regista e produttore Mahesh. Così come, lo scorso anno, l’ombra di Ibrahim è stata evocata nel caso del suicidio dell’attore Sushant Singh Rajput. Si dice che l’attore avesse confidato a suo padre e sua sorella di essere stato minacciato dalla D-Company. E in effetti, secondo voci che girano ormai da tempo nell’ambiente, le estorsioni e le minacce di morte costituiscono ancora la norma e negli ultimi tempi sarebbero riprese a pieno regime, anche ai danni di noti personaggi della televisione. Della grande saga di Bollywood&Bhai (l’industria del cinema e i «fratelli» di mafia), che negli anni ha coinvolto in un modo o nell’altro tutti i più grandi nomi del cinema indiano, da Salman Khan a Aishwarya Rai a Hritik Roshaan, a quanto pare non è ancora stata girata l’ultima scena.
La Bollywood mafiosa
La vicenda del boss Dawood Ibrahim mette in luce i legami tra criminalità organizzata, industria cinematografica indiana e jihad
/ 11.10.2021
di Francesca Marino
di Francesca Marino