La Blue Wave non convince

Gli anti-Trump – I democratici si sono ripresi la Camera ma gli americani hanno confermato lo schema del 2016. E che il modo trumpiano di fare politica non è frutto del caso ma è il nuovo stile di fare politica fra i conservatori
/ 12.11.2018
di Christian Rocca

I democratici americani hanno conquistato la camera bassa del Congresso di Washington alle elezioni di mid-term di martedì scorso e, probabilmente, questo successo peserà parecchio nei prossimi due anni del mandato di Donald Trump, con inchieste e audizioni potenzialmente molto pericolose per il presidente, ma il dato più rilevante del voto, al di là del conteggio delle schede, delle percentuali e dei seggi guadagnati e perduti, è che quel grande riscatto politico, sociale e popolare contro l’immobiliarista di New York, eletto a sorpresa e nello sgomento generale nel novembre di due anni fa, un riscatto che era stato promesso da imponenti marce delle donne, dal movimento #metoo e da un rinnovato orgoglio liberal alimentato da un’infinità di scandali, arresti e rivelazioni scottanti, be’, è fallito. Trump ha perso seggi alla Camera dei rappresentanti ma ne ha guadagnati al Senato, e ha dimostrato che la sua parabola politica non è un incidente della storia.

L’America, insomma, non ha ripudiato Trump.

Anziché trincerarsi e difendersi, il presidente americano ha condotto una battaglia in prima persona, girando il Paese, facendo comizi per i suoi candidati e personalizzando la contesa elettorale: il risultato è che non ha perso il referendum sulla sua persona, anzi. È vero che è molto odiato e temuto, ma è altrettanto vero che è molto amato e che incarna alla perfezione il suo elettorato, se possibile ancora più di due anni fa.

La Blue Wave, l’ondata blu, che avrebbe dovuto riscattare l’America progressista dall’usurpatore e dall’impostore della Casa Bianca invece ha stentato: certo, ha vinto dove doveva vincere, riacciuffando la Camera, circostanza non affatto scontata, ma non è riuscita a convincere del tutto l’America né a sconfiggere i repubblicani dove ha generosamente provato a fare il colpo grosso, come in Texas con l’astro nascente del partito Beto O’Rourke contro il conservatore Ted Cruz, e in altri Stati importanti e decisivi, a cominciare dalla Florida dove ha perso, di poco e salvo riconteggio, sia con il senatore uscente, moderato e centrista, Bill Nelson sia con il candidato governatore, nero e progressista, Andrew Gillum.  «Tremendous success», un successo straordinario, ha twittato con la solita protervia Trump a risultati conseguiti.

Il presidente americano può certamente vantare la vittoria al Senato, dove non solo ha mantenuto la maggioranza, ma ha guadagnato anche due seggi. L’ottimo risultato per i repubblicani nella camera alta è però condizionato dal fatto che il Senato si rinnova ogni due anni soltanto per un terzo dei suoi membri e, in questo ciclo elettorale, dei 35 seggi in ballo, 26 erano occupati dai democratici e 9 dai repubblicani, quindi un risultato diverso sarebbe stato pressoché impossibile. Non solo, essendo il mandato senatoriale di sei anni, alle elezioni di martedì si rinnovavano i seggi dei senatori eletti con l’ondata obamiana del 2012 che, allora, aveva trascinato alcuni Stati molto conservatori a votare per la riconferma del presidente afroamericano alla Casa Bianca e per i candidati del suo partito al Senato.

Diversa la storia alla Camera, dove invece ha votato la totalità degli elettori americani per rinnovare i 435 seggi. I democratici hanno guadagnato 30 deputati, strappando la maggioranza ai repubblicani. È un dato importante, ma anche in linea con quanto succede più o meno sempre alle elezioni di metà mandato, quando gli americani tendono a riequilibrare il voto presidenziale dei due anni precedenti. In oltre cento anni, soltanto tre volte il partito del presidente ha guadagnato seggi nel mid-term: nel 1934 con Franklin Delano Roosevelt nel 1998, con Bill Clinton e, un anno dopo l’11 settembre 2001, con George W. Bush. In tutti gli altri casi, chi sta alla Casa Bianca ha subito una sconfitta. Barack Obama perse 63 seggi alla Camera, subito dopo la straordinaria elezione a presidente; e anche il primo mid-term di Clinton fu catastrofico, con meno 54 seggi.

I seggi persi dal partito di Trump sono comunque dolorosi perché adesso i democratici guideranno i lavori dell’aula e delle commissioni e non solo potranno impedire l’approvazione del programma presidenziale, a cominciare dall’abolizione della riforma sanitaria di Obama, ma soprattutto accoglieranno con favore militante le eventuali conclusioni colpevoliste dell’inchiesta federale del procuratore speciale Robert Mueller sui rapporti tra i russi e il team Trump durante le elezioni presidenziali del 2016.

La contromossa di Trump non si è fatta attendere: il giorno successivo del voto di mid-term ha licenziato l’Attorney General, ovvero il ministro della Giustizia Jeff Sessions, ritenuto responsabile di non aver impedito la nascita dell’inchiesta Mueller, e lo ha sostituito con il Chief of staff del Dipartimento della Giustizia, Matthew Whitaker, un trumpiano di ferro notoriamente critico dell’operato di Mueller.

La decisione di Trump dimostra che il presidente è ancora molto forte, ma anche molto spaventato, come si è visto nella conferenza stampa post elettorale dove ha promesso di lavorare con spirito bipartisan con i democratici alla Camera ma anche che sarà «bellicoso» se i suoi avversari proveranno a metterlo sotto inchiesta. La conferenza stampa, inoltre, si è chiusa con il solito armamentario di accuse alla CNN, e in particolare al suo corrispondente Jim Acosta, definito «un nemico del popolo», cui poi è stato ritirato l’accredito per entrare alla Casa Bianca.

I democratici sottolineano gli aspetti positivi del voto di martedì, come l’elezione di candidati giovani e progressisti, di molte donne, di molti politici espressione di minoranze, come le prime due deputate musulmane, le due deputate native-american e il primo governatore apertamente gay, ma allo stesso tempo la strategia trumpiana di focalizzarsi sugli elettori bianchi, in particolare maschi, delle zone rurali ha funzionato altrettanto bene. Insomma non è cambiato nulla, quanto a strategia, rispetto alle elezioni presidenziali di due anni fa, con il voto popolare allora a favore di Hillary e la vittoria finale di Trump dove più contava. Due anni dopo, gli americani hanno confermato lo schema del 2016 e questo schema dimostra che il modo trumpiano di fare politica, centrato sulla difesa dell’identità nazionale e sulla paura di contaminazioni esterne, non è frutto del caso né appare destinato a sparire, ma è il nuovo modo di fare politica, perlomeno nel mondo conservatore. Il voto di mid-term, per esempio, ha sancito che il movimento dei «Never-Trumper», i repubblicani contrari a Trump, non ha alcuna presa nell’elettorato, come si è vantato lo stesso presidente commentando la vittoria dei suoi alleati e la sconfitta dei repubblicani che hanno cercato di differenziarsi da lui (altri, invece, hanno proprio rinunciato a candidarsi).

Tra due anni, alle presidenziali del 2020, Trump sarà un avversario difficile da battere per il mondo liberal ancora incerto se provarci con una piattaforma politica moderata o con un programma fortemente progressista. I dati dell’economia e della disoccupazione, al momento straordinariamente positivi anche per ragioni che esulano dalle politiche della Casa Bianca, non lasciano grande spazio di manovra a chi prefigurava disastri epocali causati da Trump. In ogni caso stiamo parlando di un presidente controverso ma capace di resistere a scandali, inchieste, dimissioni, ammissioni di colpa e arresti dei suoi principali collaboratori e, inoltre, a relazioni extraconiugali raccontate da pornostar, al movimento culturale #metoo e a rivelazioni grottesche sulla disorganizzazione della sua Casa Bianca. Difficile immaginare che cosa potrà scalfirlo, forse soltanto le conclusioni di Mueller e la nuova stagione, intesa come stagione di una serie televisiva, nel caso l’inchiesta riuscisse a provare il coinvolgimento del team Trump nelle operazioni russe contro la democrazia americana. C’è da restare sintonizzati.