Il 20 gennaio le Forze armate turche hanno scatenato un’offensiva contro la cittadina siriana di Afrin, nel nord-ovest del Paese. Si tratta di una posizione strategica collocata a ridosso del confine turco e a una quarantina di chilometri da Aleppo. Afrin è attualmente difesa da circa 10 mila combattenti curdi, appartenenti alle Unità di protezione del popolo (YPG), a loro volta afferenti al Partito siriano dell’unità democratica (PYD): per Ankara nient’altro che locali travestimenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) operante in Anatolia, dunque organizzazioni terroristiche. I turchi si sono mossi in grande stile. Erdoğan ha mobilitato circa 40 mila uomini, con un imponente supporto di artiglieria e di aerei. Tutto lascia prevedere che la resistenza curdo-siriana sarà dunque vinta. Qual è il senso di questa operazione dal punto di vista di Ankara e come reagiscono le altre potenze coinvolte nel caos siriano?
L’operazione «Ramo d’ulivo» – così definita dal quartier generale delle Forze armate turche – su Afrin è stata decisa come extrema ratio da Erdoğan, che avrebbe voluto volentieri farne a meno. La scelta di intervenire è dovuta all’offensiva che in quella stessa zona era stata avviata dalle truppe di Damasco, con l’obiettivo di impadronirsi di un’area strategica e di alleggerire la pressione delle forze ribelli contro le zone controllate dal regime. Questo non poteva essere tollerato da Erdoğan. Il presidente turco, che già ha fallito nel tentativo di rovesciare il regime di Bashar al-Asad, e che anzi si è dovuto accomodare alla permanenza al potere del suo ex alleato siriano, non poteva perdere la faccia consentendo che formazioni terroriste curde costituissero un fronte unico con i loro confratelli in Anatolia.
Prima di lanciare l’offensiva, Erdoğan ha mandato un suo inviato a Mosca per chiedere e ottenere dai russi di sgombrare la zona, dove avevano infiltrato alcuni reparti militari. Putin ha accettato, consapevole che in questo momento la Turchia è un utile alleato in funzione anti-americana. Anche gli iraniani, che avrebbero voluto evitare questa nuova penetrazione turca in Siria, hanno dovuto prendere nota del fatto compiuto, solo chiedendo ai turchi di non andare oltre. Per l’Iran infatti il mantenimento del controllo indiretto sulla Siria, o meglio su ciò che ne resta, è assolutamente fondamentale: senza quel territorio l’«impero persiano» perde la connessione al Mediterraneo e agli alleati libanesi di Hezbollah.
Si ricompone così la strana intesa del Gruppo di Astana, che vede insieme, paradossalmente, paesi non propriamente amici nella storia e sempre diffidenti gli uni degli altri, quali Turchia, Iran e Russia. Ma in questo momento le tre potenze hanno in comune la necessità di difendere le proprie posizioni rispetto alla presenza americana nell’area.
Sul fronte interno turco, la propaganda batte la gran cassa per presentare la nazione come unita intorno al suo comandante in campo, il presidente Erdoğan. Per il quale l’avanzata su Afrin rappresenta comunque un modo per riunire un Paese che aveva diviso con il referendum sul presidenzialismo, al punto di costringere anche il capo del principale partito d’opposizione (CHP) ad aderire all’impresa in nome della patria. Inoltre, in tal modo Erdoğan ha confermato agli americani che in questa fase la sua geopolitica non guarda all’Occidente ma all’Asia profonda. Il governo turco diffida della manipolazione americana dell’opposizione curda in chiave anti-Ankara e considera gli Stati Uniti, o quantomeno la loro intelligence, fattore determinante di appoggio alla resistenza curda. Come ha commentato seccamente il ministro degli Esteri russo Lavrov: «Le attività unilaterali degli Stati Uniti hanno fatto arrabbiare la Turchia».
Occorrerà vedere nelle prossime settimane quali effetti la battaglia di Afrin potrà avere sugli assetti complessivi di ciò che resta dello Stato siriano. Attualmente il governo di Damasco controlla la maggior parte del territorio e si considera di fatto vincitore. Restano però le aree settentrionali e occidentali del Paese sotto controllo curdo e resistono anche alcune zone, sia pure minori, in mano allo Stato Islamico. Inoltre sia a nord che a sud i ribelli di vario colore, alcuni dei quali sostenuti dagli Stati Uniti e dagli occidentali, continuano a minacciare la vasta area intorno a Damasco, ancora non perfettamente controllata dalle truppe governative. Né si può escludere che la battaglia di Afrin possa riaccendere i combattimenti nella stessa città di Aleppo, o di ciò che ne resta.
Nel dicembre scorso il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato vittoria in Siria. Un successo di notevole importanza anche dal punto di vista domestico, considerando che fra un paio di mesi si vota per il presidente della Federazione Russa. Questa vittoria, sia pure parziale e provvisoria, non sarebbe stata possibile senza l’intesa con la Turchia.
Turchi e russi non saranno mai veri alleati. Ma non si contano le occasioni nella storia quando paesi nemici o quantomeno non amici si trovano sullo stesso fronte in nome di interessi contingenti. Resta da capire come si collochi la Nato in questo frangente, visto che la Turchia ne resta parte, sia pure inaffidabile.