È possibile sconfiggere Donald Trump e farne un presidente «corto», di un solo mandato? È la questione a cui deve rispondere il partito democratico, che entra nel vivo della gara per selezionare il prossimo candidato alla presidenza degli Stati Uniti nel novembre 2020. Con l’annuncio della candidatura di Joe Biden, che fu per due mandati il vice di Barack Obama, il plotone degli aspiranti si affolla. Anche troppo. Ma a chi si spaventa per il gran numero di personalità che si contendono i favori della sinistra, si può ricordare che quattro anni fa i repubblicani arrivarono ad assemblare ben 17 candidati. E quello che emerse non era certo il favorito. Ci sono tuttavia delle anomalie rispetto all’ultimo ciclo elettorale. La corsa per la Casa Bianca 2020 vede in pole position un club di «oldies», maschi bianchi settantenni. I sondaggi ai nastri di partenza danno questo sconcertante verdetto.
Tutto può cambiare, e cambierà, in un anno e mezzo di campagna. Ma c’è un motivo, se a 18 mesi dall’elezione presidenziale i più gettonati per sfidare il 72enne Trump sono il 76enne Biden e il 77enne Bernie Sanders. I sondaggi danno Biden in testa alla folta pattuglia di aspiranti democratici alla nomination, più o meno alla pari con il senatore del Vermont, Sanders, il «socialista dichiarato» che nel 2016 fu in gara contro Hillary Clinton. Gli altri democratici, più giovani e con una folta rappresentanza di donne, minoranze etniche, partono distanziati. La «nazione giovane» per eccellenza (un’America che fu capace di eleggere dei quarantenni come John Kennedy e Obama; di avere miliardari ventenni come il Mark Zuckerberg delle origini) oggi sembra puntare su una gerontocrazia di maschi bianchi.
È anche questo un effetto-Trump. La forza di Biden e Sanders sta nel fatto che – al momento – sembrano i due più adatti a recuperare l’elettorato-chiave del 2016: quelle frange di classe operaia (maschi e bianchi, appunto) che dopo aver votato Obama si erano spostati su Trump. La fascia «rosso-blu» del Midwest, gli Stati in bilico della Rust Belt (la cintura della ruggine, aree di vecchia industrializzazione colpite dalla concorrenza messicana o cinese): Michigan, Ohio, Wisconsin, Pennsylvania. Biden coltiva l’immagine dell’uomo venuto dal popolo, colletto blu per estrazione sociale. Sanders punta tutto sui diritti economico-sociali, agita i temi di una sinistra classica, «sindacale».
Biden e Sanders rappresentano però due opzioni molto diverse. Sono le scelte di fondo che il partito democratico deve fare in questi mesi. Biden ha governato per otto anni al fianco di Obama e rappresenta una tradizione moderata, centrista. Anche se Obama ha preannunciato che non darà endorsement durante le primarie, e la sua Fondazione cerca di allevare una nuova leva di dirigenti giovani, il suo ex-vicepresidente può ammantarsi del carisma di una figura politica amata e rimpianta. Con dei ma: la sinistra radicale sta sottoponendo a un severo bilancio i due mandati di Obama. Dopotutto la nascita di un populismo di destra è legata alle due riforme, o mancate riforme, di quegli anni: il maxi-salvataggio delle banche di Wall Street senza sanzioni reali contro i banchieri; una riforma sanitaria incompiuta che ha lasciato tanti problemi irrisolti. Biden aggiunge agli handicap i sospetti di sessismo, sia per il suo ruolo nel salvare il giudice costituzionale Clarence Thomas dalle accuse di molestie sessuali di Anita Hill (1991), sia per episodi di eccessiva intimità rinfacciati da alcune donne del suo partito.
Sanders punta a surclassare l’exploit del 2016 cioè un’insurrezione della base che sposti l’asse del partito, mobilitando i giovani che spesso non votano. Le sue proposte più radicali abbracciano il Green New Deal lanciato dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortez: un vasto programma di investimenti pubblici per riconvertire l’economia americana a zero emissioni. E il Medicare For All, che traghetterebbe gli Stati Uniti verso un sistema sanitario nazionale a gestione pubblica, sul modello europeo.
Tutti e due cercheranno di sottrarre voti operai a Trump con politiche più aggressive su immigrazione e globalismo. Prenderanno le distanze dalle multinazionali e dalle frange della sinistra radicale che predicano le frontiere aperte. Sull’immigrazione il ripensamento della sinistra americana è confermato da opinionisti come Thomas Friedman del «New York Times», il primo a spezzare il tabù sul Muro («è utile, se accompagnato da altre politiche») e David Frum il cui saggio-shock appare su «The Atlantic» col titolo: Quando l’immigrazione è troppa? Se i progressisti non controllano le frontiere, lo faranno i fascisti.
Com’è inevitabile in questa fase di selezione darwiniana, assisteremo ad un gioco al massacro: la sinistra ancor più della destra eccelle nello sport di far fuori i propri compagni… per poi far vincere l’avversario. Su Biden si scatenerà il fuoco del movimento femminista #MeToo ma non solo quello. Ho sentito dei giovani nei campus californiani dire: «I draw a line with Biden». Tradotto: l’ex vicepresidente è una linea rossa, di demarcazione, se il partito democratico lo candida io non vado a votare. È un atteggiamento che nel 2016 contribuì a portare Trump alla Casa Bianca. I Millennial e la Generazione X quattro anni fa si entusiasmarono per Sanders. Visto che le primarie incoronarono la Clinton, molti giovani il giorno dell’elezione rimasero a casa. Oppure votarono per la candidata dei Verdi, che disperse circa il 2% dei voti: più che sufficienti a far vincere Trump. La sinistra «purista» ha questo dono, sa lavorare alacremente per rimanere all’opposizione.
Ci sono anche dei puristi che hanno da ridire su Sanders. Già gli rinfacciano di essere entrato nel «club dell’un per cento»: grazie ai diritti d’autore sui suoi libri, il senatore del Vermont è diventato un «ricco». Poca cosa rispetto a Trump, ma la polizia etica del politically correct ci trova da ridire. I maggiori attacchi però per Sanders verranno da tutt’altra parte. Trump ha già detto che se passa un candidato della sinistra socialista, gli Stati Uniti diventeranno come il Venezuela di Maduro. Qualcuno è rimasto sorpreso che la Fox News (tv di destra) abbia invitato proprio Sanders per la prima tribuna elettorale in formato town-hall. Forse Trump sogna un avversario come Sanders per impallinarlo alla fine, demonizzando le sue proposte e spaventando anche i centristi del partito democratico.
Il gioco al massacro non risparmia i candidati «minori», cioè tutti gli altri. Kamala Harris, per esempio: la senatrice della California partiva col vantaggio di essere donna e di discendenza etnica mista; ma l’ala sinistra del suo partito proprio in California non le perdona di essere stata un severo ministro della Giustizia in quello Stato, con una linea dura contro il crimine. Un altro finito nel tritacarne è Pete Buttigieg, ex sindaco di una città dell’Indiana. Giovane, gay dichiarato e sposato con un uomo, avrebbe tutto per piacere alla sinistra radicale. Però è accusato di non aver difeso un poliziotto nero dal razzismo dei suoi colleghi, e rischia di alienarsi un elettorato cruciale come quello afro-americano. Da Elizabeth Warren a Kirsten Gillibrand, da Beto O’Rourke a Amy Klobuchar, tutti gli altri hanno lo stesso problema: se il partito democratico si caratterizza come una coalizione di minoranze suscettibili e permalose, sempre gonfie di risentimento per i torti subiti, ciascuno dei candidati sarà attaccabile per qualche manchevolezza del suo passato.
Trump è un presidente tutt’altro che forte. Il suo livello di consensi ha oscillato tra un massimo del 45% e un minimo del 35%. Non dovrebbe essere difficile sconfiggerlo. Ma può ripetere il miracolo del 2016 se ricompatta la minoranza di americani che lo votò allora. Anche la questione dell’impeachment, rischia di risolversi in suo favore: per adesso ha il potere di far venire a galla tutte le divisioni in seno alla sinistra. Gli effetti del Rapporto Mueller sul Russiagate continueranno a sentirsi, ma non è chiaro se danneggeranno il presidente o i suoi avversari.
Trump è stato salvato dall’impeachment grazie ai tanti «no» dei suoi collaboratori. Rifiutandosi di eseguire ordini probabilmente illegali, gli insubordinati del suo staff hanno evitato in extremis che il presidente scivolasse nel reato da interdizione, «ostruzione della giustizia». E così facendo, forse, hanno anche salvato lo Stato di diritto nella più antica delle democrazie liberali.
Le letture divergono, tra chi (a destra) sottolinea come Robert Mueller non abbia trovato il presidente colpevole di reati da impeachment – la collusione coi russi – e chi invece (a sinistra) sottolinea la conclusione più problematica di quell’istruttoria: il passaggio in cui Mueller dice di «non poter proclamare l’innocenza del presidente» sul reato di ostruzione della giustizia. Il Rapporto delega la vera conclusione alla Camera, dove i democratici sono divisi sul da farsi.
Il Russiagate avrebbe preso tutt’altra piega, se tutti gli ordini di Trump fossero stati eseguiti. Quello che emerge dalle 448 pagine del Rapporto Mueller, è il quadro di una Casa Bianca nel caos, dove la catena di comando spesso gira a vuoto. In particolare un episodio, avvenuto nel giugno 2017 tra il presidente e colui che all’epoca era il massimo consigliere legale della Casa Bianca, Donald McGahn. Trump ordinò a McGahn di far licenziare Mueller accusandolo di «conflitti d’interessi». McGahn, un giurista rispettato come lo stesso Mueller, rifiutò di eseguire l’ordine. Se Mueller fosse stato cacciato nel bel mezzo della sua indagine, con ogni probabilità Trump oggi sarebbe imputato di ostruzione alla giustizia.
La lettura ottimista di queste insubordinazioni conclude che la liberaldemocrazia americana è sana, continua ad avere degli anticorpi che impediscono derive illiberali. C’è una lettura pessimista nella sinistra radicale: se il Congresso non esercita il suo dovere di vigilanza, se non va in fondo alla questione concludendo la parte incompiuta dell’inchiesta Mueller, allora non è più vero che la legge si applica a tutti e lo Stato di diritto ne esce indebolito. Oggi è su questo che il partito democratico si spacca. La presidente della Camera Nancy Pelosi, e con lei la maggioranza moderata dei democratici, pensano che perseguire l’impeachment sarebbe un errore e potrebbe favorire la rielezione di Trump.