Una delle scene di cui più si è discusso durante queste Olimpiadi invernali riguarda il giovane atleta nordcoreano Jong Kwang-bom. Il pattinatore è caduto all’avvio della gara dei cinquecento metri di short track, e con un braccio avrebbe tentato intenzionalmente di far cadere anche il giapponese Keita Watanabe. I giudici di gara hanno deciso di sospendere la competizione, nonostante le regole impongano che se un pattinatore cade da solo, senza coinvolgere gli altri, la corsa può proseguire. Al nuovo avvio, però, Kwang-bom è caduto ancora, senza nemmeno riuscire ad arrivare alla prima curva. Watanabe ha poi detto ai giornalisti che a suo avviso il gesto di Kwang-bom non è stato volontario. E poi che in fondo capita, nello short track, che qualcuno cada e venga squalificato.
Insomma, l’agonismo e la geopolitica battuti dalla forza dello spirito olimpico. Jong Kwang-bom è uno del ventidue nordcoreani che hanno partecipato a questa edizione delle Olimpiadi invernali di Pyeongchang, in Corea del sud, grazie all’intercessione (più politica che sportiva) del Comitato olimpico internazionale. Una mossa diplomatica, volta a mostrare l’apertura e la buona volontà della comunità internazionale nei confronti di Pyongyang. Questa è stata l’edizione invernale dei Giochi con più atleti nordcoreani, ma è molto difficile che i cittadini nordcoreani siano stati in grado di vedere le performance dei propri connazionali in diretta: di solito al Nord si usa mandare in differita le gare importanti, con uno o due giorni di ritardo. C’è dietro un motivo di propaganda: il ruolo dello sport, come da tradizione sovietica, serve a dimostrare la superiorità del paese, a creare nuovi miti ed eroi nazionali. Non è un caso se una delle atlete più famose in Corea del nord sia Jong Song-ok, la donna che vinse la maratona in Spagna nel 1999 e che diceva di correre immaginando accanto a sé il Caro Leader.
Lo short track è molto popolare in Corea del sud, ma è anche la specialità con cui la Corea del nord è riuscita a conquistare una delle sue uniche due medaglie olimpiche invernali. Era il 1992, Hwang Ok-sil arrivò terza nei 500 metri in velocità. È anche per questo autorevole precedente che mostrare Kwang-bom che si infortuna durante gli allenamenti, e poi cade per ben due volte a pochi centesimi di secondi dall’avvio, non sarebbe stato un messaggio autorevole per il regime. Al contrario di Kwang-bom, la coppia di pattinatori artistici Ryom Tae-ok e Kim Ju-sik si erano regolarmente qualificati lo scorso anno per le Olimpiadi invernali. Lui ha 25 anni, lei 18, e sono una coppia sportiva sin dal 2015. Negli ultimi anni sono riusciti a raggiungere buoni risultati in quasi tutte le competizioni internazionali. Nella gara fatta a Pyeongchang hanno danzato sulle note occidentalissime di A Day in the Life dei Beatles, raggiungendo il record personale di 69,40 punti e classificandosi tredicesimi. Alla fine della competizione hanno parlato con i giornalisti stranieri, hanno ringraziato la Corea del sud ma soprattutto hanno lanciato il solito messaggio politico: «Adesso vi abbiamo dimostrato quanto può essere forte il popolo coreano quando è unito».
Mentre il precedente leader Kim Jong-il poneva particolare attenzione alla propaganda cinematografica – e lo dimostra l’incredibile rapimento nel 1978 del regista sudcoreano Shin Sang-ok e dell’attrice Choi Eun-hee – il figlio Kim Jong-un ha spostato l’attenzione del regime di Pyongyang sullo sport, e gli atleti sono la quinta colonna nordcoreana, finanziata e sostenuta dal governo. Kim è riuscito a trasformare le Olimpiadi appena concluse nella grande festa di riconciliazione, ma spente le luci dei riflettori bisogna tornare a guardare verso Washington, e alle decisioni che prenderà nei prossimi giorni il presidente Donald Trump. Mentre i «Giochi della pace» erano ancora in corso, l’agenzia di stampa ufficiale nordcoreana ha diffuso un comunicato per dire che Pyongyang è «pronta sia al dialogo sia alla guerra», e che è in grado di rispondere a «qualsiasi provocazione da parte degli Stati Uniti» con un contrattacco immediato.
Il riferimento è alle parole di Marc Knapper, attuale capo della diplomazia americana in Corea del sud, convinto che le esercitazioni militari tra Washington e Seul non sono annullate, ma solo rinviate al mese di aprile. La sospensione definitiva di quelle esercitazioni – una specie di war game che si effettua ogni anno intorno alla penisola coreana – è da sempre una delle condizioni poste da Pyongyang per sedersi al tavolo delle trattative. «La volontà dell’Amministrazione Trump di riesumare le esercitazioni di guerra è un atto folle e spietato, e calpesta perfino quel piccolo germoglio di pace che si intravede nella penisola coreana», si legge sulla nota di Pyongyang.
Il presidente sudcoreano Moon Jae-in, nel frattempo, non ha ancora dichiarato nulla di ufficiale riguardo all’invito del leader Kim Jong-un a un incontro tra i due nella capitale nordcoreana. Del resto, tra gli analisti di questioni coreane, si parla sempre di più di un possibile strike americano contro il regime. Ma di uno strike virtuale. Secondo un report bene informato pubblicato da «Foreign policy», infatti, l’America «sta aumentando le sue capacità di intelligence sulla penisola», e secondo almeno due fonti, qualsiasi sia l’attacco preventivo che Trump ordinerà, «è molto probabile che il primo strike sia cibernetico».
Diverse agenzie di cybersicurezza, tra cui FireEye, nelle ultime settimane hanno dimostrato che per anni l’attività di spionaggio informatico da parte della Corea del nord è stata sottovalutata dalle agenzie di intelligence internazionali. Questa sorta di distrazione globale ha permesso a Pyongyang di monitorare, infiltrare, rubare informazioni e poi rivenderle,ma soprattutto di procurarsi soldi – come nel caso degli 81 milioni di dollari spariti due anni fa dalla Banca Centrale del Bangladesh. È possibile che Trump abbia deciso di spezzare questa catena invisibile che tiene ancora in piedi il regime. Che accada senza morti né sangue, però, nessuno può saperlo.