Basta passeggiare per qualche chilometro nel centro di Tokyo. Alcuni robot all’ingresso dei negozi rispondono alle vostre parole, anche se siete stranieri. Reagiscono perfino al cambiamento delle vostre espressioni facciali: se sorridete, sorridono, se vi arrabbiate, si arrabbiano. Uno dei più famosi e turistici ristoranti del quartiere Shinjuku si chiama Robot restaurant, e per un prezzo spropositato si può godere dell’esperienza di essere serviti da robot che cantano e ballano. Di fronte al noto ristorante qualcuno ha pensato di aprire un «ristorante umano», che si chiama proprio così, e l’interno è ambientato in una specie di distopia post-apocalittica.
I robot, e in genere l’intelligenza artificiale, per la capitale giapponese oggi sono un ottimo investimento per il turismo: all’Henn-na Hotel del quartiere di Ginza, che è stato inaugurato già da qualche anno, alla reception non c’è nessun umano, soltanto androidi. Che gestiscono check in e check out dei clienti con grazia ed efficienza. L’hotel gemello nella città di Nagasaki addirittura non consegna agli ospiti nemmeno le chiavi delle stanze: basta il riconoscimento facciale. Questo tipo di tecnologia però non è soltanto una strana attrazione per turisti. Il Giappone, che è uno dei paesi più vecchi del mondo, sta puntando molto sull’automazione e sull’intelligenza artificiale per l’assistenza agli anziani, e nelle vie del business non è difficile imbattersi in showroom interi dedicati a robot che si occupano di persone a ridotte capacità di autosufficienza, dai letti intelligenti ai carrellini per camminare smart.
La chiamano la Quarta rivoluzione industriale, e la guerra tecnologica tra oriente e occidente si muove proprio su quella direttrice. L’intelligenza artificiale, e tutto ciò che ne consegue nel campo della ricerca, della raccolta dei dati su larga scala, della produzione di sofisticate tecnologie determinerà, secondo gli analisti, la supremazia di una parte di mondo sull’altra. Ma in questo caso non si tratta, non solo almeno, di una nuova Corsa allo spazio. In un passato post-bellico si trattava di vincere o perdere la dominazione di universi ancora inesplorati, una corsa a cui i cittadini normali assistevano da lontano. L’intelligenza artificiale, invece, sta già cambiando il nostro modo di pensare e di effettuare la maggior parte delle azioni quotidiane.
Non è un caso, del resto, che la guerra commerciale tra America e Cina si muova soprattutto nel settore tecnologico, e sia destinata a durare a lungo. Sulla questione negli ultimi anni si è prodotta parecchia letteratura. L’ultimo libro in uscita è quello firmato da Kai-Fu Lee, cinese originario di Taiwan, ex presidente di Google China e uno dei massimi esperti di intelligenza artificiale al mondo, che ha appena pubblicato AI Superpowers: China, Silicon Valley, and the New World Order. Quello di Kai-Fu Lee è un libro considerato disruptor, che cambia la prospettiva con la quale per anni ci siamo avvicinati allo studio della nuova rivoluzione tecnologica.
Secondo Lee, Pechino sta già vincendo la corsa contro gli Stati Uniti, grazie agli enormi investimenti governativi, la manodopera a basso costo, e forse grazie anche alla (quasi) totale assenza di questioni etiche, bioetiche e di privacy che anima il campo della ricerca cinese. Il mondo virtuale e quello reale nelle grandi città cinesi sono già mischiati, spiega Lee, e il prossimo passo sarà la loro sovrapposizione: andare in un supermercato, per esempio, e sapere che il supermercato conosce tutto di voi, della vostra famiglia e dei vostri gusti.
In America – ma in gran parte della società occidentale – questo tipo di investimenti sono per lo più frammentati, e nel caso americano è il settore privato a mandare avanti la ricerca e le sperimentazioni.
Anche l’Europa sembra avere un approccio meno coordinato, ma soprattutto i paesi europei sembrano spaventati dai cambiamenti che la robotica e l’ingegneria potrebbero avere nella società. È la questione etica a essere diversa: in Asia, al contrario dell’Europa, il progresso si misura dall’evoluzione della ricerca e della tecnica. Se il caso cinese è un caso limite, perché imposto dal governo, altre potenze economiche e democratiche asiatiche si stanno già avviando verso un futuro che potrebbe aiutare l’essere umano, non solo minacciarlo.
L’esempio della piccola isola di Taiwan è emblematico. Una delle sfide più importanti per Taipei è cercare di restare al passo con la concorrenza tecnologica. Per farlo, si sta dotando da anni di un «ecosistema» adatto, che possa spingere anche le imprese straniere a lavorare qui. Il governo di Taiwan – che non è riconosciuto da Pechino né ha rapporti diplomatici ufficiali con la maggior parte degli Stati, compresa l’Unione europea – sta usando il settore tecnologico proprio per riuscire a fare del business una valida alternativa all’isolamento diplomatico. A Taichung, per esempio, a un’ora di treno da Taipei, ci sono i quindici chilometri quadrati del Central Taiwan Science Park, un luogo in cui la filiera della produzione tecnologica è ridotta al minimo, e 186 aziende (di cui almeno 34 sono colossi stranieri, soprattutto giapponesi) lavorano fianco a fianco in un sistema integrato e con parecchi servizi a disposizione.
L’area è famosa soprattutto per l’optoelettronica, le macchine di precisione, ma più della metà della produzione che ha concorso alla crescita dell’11,13 per cento nel 2017 rispetto all’anno precedente sono i cosiddetti circuiti integrati. I chip, cioè le intelligenze di silicio di cui tutte le nuove tecnologie hanno bisogno, e che sempre più spesso i colossi occidentali diffidano dall’importare dalla Cina continentale. «Il punto più interessante però – spiega il direttore generale Ming-Huang Chen – è che le imprese per stare nel parco e usufruire dei servizi devono investire un’ampia percentuale dei loro fatturati in ricerca. Senza la ricerca sono fuori. È grazie a questa strategia che qui, nel 2017, sono stati approvati oltre tremila brevetti». Nel 2017 il parco è stato ampliato ancora, ed è stata data più importanza all’intelligenza artificiale.
Nel Robotic Hub inaugurato a febbraio chiunque abbia una buona idea può fare domanda per utilizzare i costosi macchinari messi a disposizione dal governo, e lavorare in team, sul modello della Silicon Valley americana. «Un tempo, dietro a un robot c’era sempre l’uomo a comandarlo», ci spiega Jerry Liu, ingegnere di 28 anni mentre ci mostra l’androide che gioca a Go, gli scacchi orientali, «adesso siamo in una fase in cui insegniamo ai robot cosa fare, e li lasciamo fare da soli».
In Europa si dice continuamente che le macchine ci ruberanno il lavoro, cosa ne pensate voi? «Qui abbiamo un robot che prepara i caffè. Oggi è rotto, e quindi il caffè ce lo prepariamo da soli. Credo sia una ottima metafora: i robot si rompono continuamente, c’è sempre bisogno dell’uomo». Ma possono aiutare a vivere meglio: i robot intelligenti per l’edilizia, per esempio, oltre a essere più efficienti dell’uomo, riducono drasticamente gli incidenti sul lavoro. Una decina di giorni fa Fast Retailing, il colosso giapponese fondato da Tadashi Yanai che possiede anche il marchio Uniqlo, ha inaugurato a Tokyo il primo magazzino all’interno del quale non lavora nemmeno un essere umano. Tutto è automatizzato, e tutto può funzionare per ventiquattr’ore su ventiquattro, senza sosta. In Europa, qualche giornale ha titolato: «In Giappone i robot rubano già il lavoro ai magazzinieri».