La Cina teme che un’implosione del regime nordcoreano porti decine di migliaia di profughi all’interno delle sue frontiere; la Cina teme che dopo una guerra con una coalizione guidata dagli Usa, dalla quale Pyongyang uscirebbe certamente sconfitta, una Corea unificata alleata degli Usa rappresenterebbe un’avversario temibile, e molto vicino. Quindi – questo il ragionamento di molti analisti, tra cui quelli che consigliano il presidente americano Donald Trump – il leader cinese Xi Jinping userà la sua influenza di unico alleato, protettore e partner economico per condurre il dittatore nordcoreano Kim Jong-un alla ragione.
Cose che si sentono dire almeno dal 2006, quando il padre dell’attuale dittatore, Kim Jong-il, ordinò il primo test nucleare.
Eppure, la Cina non fa nulla. Condanna le provocazioni di Pyongyang appoggia – a parole – le sanzioni, ma il regime di Kim appare solido come sempre. Il ragionamento si basa su un errore di fondo: il rapporto tra la Cina e la Corea del Nord non assomiglia in nessun modo a quello che esisteva ai tempi della Guerra fredda tra l’Urss e i suoi paesi «satelliti» dell’Europa Orientale. La Corea del Nord è stata sempre più vicina all’Urss che alla Cina. Anche oggi che l’Urss si è dissolta la sua erede, la Russia di Vladimir Putin, rappresenta per Pyongyang un prezioso «secondo forno» che può essere usato con profitto in caso di un improbabile abbandono da parte di Pechino. I coreani – del nord o del sud, non importa – hanno un’innata diffidenza verso cinesi e giapponesi, i Paesi che nel corso della storia l’hanno invasa decine di volte. Insomma, il sogno di un Xi Jinping che alza il telefono e dà i suoi ordini, e di un Kim che esegue senza discutere, è destinato a rimanere tale.
Il test è stato condotto poche ore prima che Xi ricevesse a Xiamen, sulla costa orientale della Cina, i capi di Stato e di governo di Russia, India, Brasile e Sud Africa. Il vertice dei cosidetti Brics avrebbe dovuto essere un momento di gloria per il leader cinese. Invece, grazie a Kim, è stato dominato dalla preoccupazione e dall’imbarazzo per una crisi che prosegue e che si teme possa sfuggire di mano ai suoi protagonisti – Kim e il suo grande avversario, Donald Trump. Non è la prima volta che il «piccolo» Kim mette in serio imbarazzo il «grande» Xi. La stessa cosa – con un lancio di missili invece di un test atomico – era avvenuta in occasione del vertice di Pechino sulla Belt and Road Initiative, in maggio.
Intervistato dal «New York Times» Peter Hayes, direttore dell’Istituto Nautilus, specializzato in analisi sulla Corea del Nord, si è dichiarato convinto che Kim stia mettendo sotto pressione Xi perché pensa che possa garantirgli il raggiungimento del suo vero obiettivo, cioè una trattativa diretta con gli Usa, che dovrebbero impegnarsi a non fargli fare la fine del libico Muammar Gheddafi, deposto e assassinato dopo aver rinunciato al suo programma atomico.
Xi Jinping si trova così sotto una doppia pressione: da una parte Trump appare convinto che lui, Xi, possa bloccare Kim; dall’altra, Kim sembra credere che lui, Xi, possa portare Trump al tavolo delle trattative.
Sia Trump che Kim sbagliano. Steve Tsang, esperto di Cina della Università di Londra, ha affermato che «il reale limite alle azioni del Partito Comunista Cinese è il potenziale impatto (di una caduta del regime di Kim) non sulla Corea, ma sulla stessa Cina». Una brutta fine di Kim e del suo regime indicherebbe ai dissidenti interni al partito – sempre secondo Tsang – che Xi è un leader «debole», incapace di fare «qualsiasi cosa sia necessaria» per mantenere il potere. Sarebbe un «traditore» come Mikhail Gorbaciov che, secondo la narrazione interna al Pcc, sarebbe stato il vero responsabile del crollo del sistema comunista sovietico. Per un leader comunista e asiatico come Xi Jinping, nulla è peggio del sospetto di essere un «debole». Xi, prosegue il professore, «vuole persuadere i suoi vicini regionali a guardare alla Cina (come superpotenza) e a non fidarsi degli USA. Aiutare Trump a risolvere il problema della Corea del Nord non è funzionale a questo progetto». Che Xi abbia il potere di convincere Trump ad accettare una Corea del Nord nucleare è altrettanto illusorio. In passato, i tentativi di compromesso – nel 1994 e nel 2007 – sono falliti per responsabilità dell’una e dell’altra parte, che si sono accusate a vicenda di non aver rispettato i termini degli accordi. Per andare al tavolo delle trattative con una concreta prospettiva di successo, Trump dovrebbe essere pronto ad accettare una Corea del Nord nucleare o, nella migliore delle ipotesi, un accordo che preveda il congelamento del programma atomico di Pyonyang fidandosi del regime – vale a dire un accordo non molto diverso da quello tra gli Usa di Barack Obama e l’Iran, che Trump ha aspramente criticato.
Negli anni scorsi India e Pakistan hanno sfidato con successo il regime di non proliferazione, dotandosi di un arsenale atomico e riuscendo a mantenerlo senza aver subito serie conseguenze: un fatto che suona come un incoraggiamento per Kim e per i suoi strateghi.