Kim e la bomba, un distacco difficile

Disarmo – Quali sono le ragioni per le quali è difficile credere alla rinuncia all’armamento nucleare da parte di Kim?
/ 16.07.2018
di Beniamino Natale

Erano le 7.30 di una mattina di primavera. Dalla finestra dell’albergo nel quale avevo passato la notte, a Wonsan, sulla costa orientale della Corea del Nord, si vedeva una spiaggia larga, lunga e pulita. Il mare era verde e limpido. Due bambini si rincorrevano ridendo. Quest’immagine paradisiaca – della quale ho potuto godere grazie alla Cooperazione italiana, che aveva un programma di aiuti agli ospedali materno-infantili della provincia di Wonsan – si dissolse presto, appena scesi per la colazione. Nella hall dell’albergo c’era un enorme televisore. Era acceso e trasmetteva a tutto volume gli spot di propaganda del governo di Pyongyang, che formano gran parte del palinsesto della tv nordcoreana. Grossi marines americani o piccoli giapponesi con la faccia cattiva che uccidevano i coraggiosi e generosi ragazzi coreani a colpi di baionetta. Sommergibili esplodevano con grandi fiammate, cannoni sparavano i loro enormi proiettili, il sangue scorreva a fiumi.

Quelle scene mi sono tornate in mente quando ho letto i resoconti contraddittori della recente missione a Pyongyang del segretario di Stato americano Mike Pompeo. Secondo Pompeo «passi in avanti» sarebbero stati fatti su «tutti i temi in discussione». I nordcoreani, invece, hanno accusato Pompeo di comportarsi «come un gangster» e gli Usa, in sostanza, di non voler rispettare gli impegni presi dal presidente Donald Trump durante il vertice di Singapore con il leader supremo di Pyongyang, Kim Jong-un.

Potrebbe essere un «normale» momento difficile nelle trattative oppure l’inizio della fine della «luna di miele» di Singapore.

La propaganda che sottolinea la forza e la violenza del nemico – gli americani e i giapponesi – è uno dei pilastri sui quali si regge il regime dei Kim (l’attuale leader è il terzo della dinastia, dopo il padre Kim Jong-il e il nonno Kim il-sung). Sono passati molti anni da quel mio viaggio in Corea del Nord (in tutto ho visitato il Paese tre volte, tra il 2004 e il 2010) ma da quello che leggo, sento e vedo non sembra che le cose siano cambiate molto.

La propaganda ha un ritmo martellante, e non potrebbe essere altrimenti, dato che il suo scopo è quello di convincere la popolazione che la guerra con gli americani e i loro alleati, che in realtà è finita nel 1953, è ancora in corso. Cosa succederebbe se improvvisamente gli americani diventassero buoni? Da quale nemico dovrebbero proteggerli questi semidei benpasciuti e sorridenti in un Paese nel quale la lotta per la sopravvivenza quotidiana è dura e la denutrizione è la regola?

Bisogna tenere presente che il secondo dei pilastri sui quali si regge il regime – il terzo è la repressione feroce di ogni dissenso – è la disinformazione della grandissima maggioranza della popolazione, che non ha alcun contatto con i mezzi di comunicazione del resto del mondo, compresa la vicina e alleata Cina. Altrimenti come possono credere che il loro Paese sia una specie di paradiso in terra, che i Kim siano delle divinità che li fanno vivere nel modo migliore possibile, quando nella realtà la Corea del Nord è più povera dei più poveri paesi africani? Se un giorno questi pilastri crolleranno – e crolleranno se davvero la Corea del Nord si aprirà al resto del mondo – la sorte della dinastia sarà segnata.

Seguendo per alcuni anni i six party talks, le trattative tra le due Coree, gli Usa, la Cina, il Giappone e la Russia, che si sono svolte dal 2003 al 2007 a Pechino, ho appreso che i nordcoreani considerano la diplomazia una prosecuzione della guerra con altri mezzi, basata su trabocchetti e improvvisi voltafaccia.

Queste sono alcune delle ragioni per le quali risulta difficile credere che la Corea del Nord della dinastia dei Kim possa rinunciare al suo armamento nucleare. Nessuno sa dire se Kim Jong-un abbia veramente intenzione di trovare un accordo che gli permetta di mantenere in vita almeno una parte del suo – peraltro trascurabile se paragonato a quello delle altre potenze nucleari – arsenale atomico.

Vale la pena forse di ricordare che Trump non è il primo presidente americano ad aver l’idea di lanciare un processo di dialogo con la Corea del Nord – e che l’attuale presidente sudcoreano Moon Jae-in non è il primo a muoversi sulla strada della distensione, già percorsa senza successo dal suo predecessore Kim Dae-jung. Alla fine degli anni Novanta il presidente Bill Clinton intraprese la stessa strada; fu raggiunto un accordo per il disarmo (allora si parlava di missili, il nucleare non era ancora sul tappeto) chiamato «agreed framework», che in sostanza prevedeva una serie di passi dalle due parti sulle strade parallele del disarmo della Corea del Nord e degli aiuti economici forniti al Paese dalla comunità internazionale. L’«agreed framework» passò nel dimeticatoio quando il successore di Clinton, George W. Bush, e Kim Jong-il si accusarono l’un l’altro di non aver rispettato gli accordi.

L’altra ragione per la quale è difficile credere al disarmo nucleare di Pyongyang è che tutti i paesi che hanno violato il regime di non-proliferazione nucleare, per una ragione o per l’altra, l’hanno fatta franca: Israele, India e Pakistan sono oggi potenze nucleari a tutti gli effetti e nessuno più lo contesta. Hanno rinunciato alla loro bomba il Sud Africa e la Libia di Muammar Gheddafi – la cui fine non a caso viene citata dai nordcoreani quando vogliono spiegare perché non intendono seguire il suo esempio. Lo hanno fatto perché hanno valutato che per loro fosse un passo conveniente, cosa che non pare essere vera per il regime nordcoreano. Ultimo ma molto importante fattore da considerare, la Cina di Xi Jinping. Sicuramente Pechino ha tutto l’interesse ad avere a Pyongyang un regime «ragionevole» e non imprevedibile come quello dei Kim, ma con tutta probabilità preferirà sempre una Corea del Nord con armamento atomico ad una Corea unificata e alleata degli Usa con la quale confinerebbe in caso di un tracollo della dinastia nordcoreana.