Johnson o Hunt?

Tories – L’ex sindaco di Londra e il ministro degli Esteri sono rimasti in corsa e si sfideranno per la successione di Theresa May come leader Tory e prossimo premier britannico
/ 01.07.2019
di Cristina Marconi

I Tories hanno disperatamente bisogno di un prestigiatore bravo a far sparire la Brexit sotto una tendina di stelle, a segarla in due o in tre per renderla più digeribile per il Parlamento o a tirare fuori dal cilindro una soluzione-coniglio che piaccia a una solida maggioranza di elettori. E quindi il partito guarda a Boris Johnson, ex sindaco di Londra a cui nessuno, neppure i moltissimi sostenitori, riconoscono una particolare competenza o un’affidabilità a prova di bomba. A lui e ai suoi presunti superpoteri è andata la stragrande maggioranza dei voti durante i ballottaggi tra i deputati e rispetto a lui si sono dovuti posizionare tutti gli aspiranti rivali, fino a quando non ne è emerso uno, quello definitivo: Jeremy Hunt, proprio l’uomo che ha dovuto raccogliere i cocci lasciati da Boris al Foreign Office, la prova vivente che il «tocco magico» del biondo cinquantacinquenne non sempre funziona.

Entrambi devono vedersela con un partito profondamente spaccato, uscito malamente dai tre anni di narcotizzazione ad opera di Theresa May e dei suoi reiterati tentativi, tutti falliti, di far passare una Brexit «tecnica» e troppo attenta ai dettagli per convincere un Paese ancora molto confuso dal referendum del 23 giugno del 2016. Entrambi devono imparare dagli errori della May per chiudere il prima possibile un dossier che sta facendo andare in cancrena un intero sistema politico.

Johnson e Hunt, entrambi provenienti da famiglie dell’iperuranio sociale, con Hunt addirittura imparentato con la regina Elisabetta II, non potrebbero essere più diversi: il biondo e il grigio, il disordinato e il metodico, il carismatico ex primo cittadino della Londra splendida delle Olimpiadi e lo spietato ex razionalizzatore di un servizio sanitario nazionale sempre più ridotto all’osso. Anche se l’avversario di Boris ci ha messo poco a dimostrare di non essere un mansueto uomo di partito e di saper attaccare all’occorrenza, definendo «codardo» l’avversario per via della sua reticenza a sottoporsi ad un confronto televisivo, che avverrà solo il 15 luglio, appena una settimana prima del voto dei 160mila iscritti al partito, e sarà trasmesso sul sito di «The Sun». L’arte oratoria di solito premia Johnson, che però negli ultimi giorni se l’è dovuta vedere con una vicenda pesante e dannosa per la sua immagine pubblica.

Convinto dai suoi consiglieri a mantenere ancora un po’ di ambiguità costruttiva sulla linea che seguirà sulla Brexit, Boris Johnson deve però vedersela con gli strascichi di un brutto episodio che rischia di interrompere l’indulgenza con cui l’opinione pubblica ha sempre giudicato la sua disordinatissima vita privata. Divorziato due volte e noto donnaiolo, con almeno una figlia nata da una relazione extraconiugale, il cinquantacinquenne Johnson ha una fidanzata giovane, intelligente e bella, Carrie Symonds, che lavorava per la comunicazione del partito conservatore e che avrebbe avuto un ruolo importante nell’ingentilire l’immagine dell’ex ministro degli Esteri.

Il quale ora, in attesa del divorzio dalla ex moglie Marina Wheeler, vive a casa della trentunenne Symonds a Camberwell, un ex quartiere malfamato a sud di Londra diventato molto alla moda soprattutto tra l’intelligentia liberal e di sinistra. Una settimana fa i vicini hanno chiamato la polizia in seguito a una lite molto accesa tra i due, in cui la donna sarebbe stata sentita urlare «toglimi le mani di dosso» e avrebbe lamentato l’atteggiamento da persona ricca e viziata di Johnson, che rovesciandole del vino rosso sul divano avrebbe dimostrato di non conoscere il valore delle cose.

Come in una versione middle class delle liti all’Eliseo tra François Hollande e la ex Valérie Trierweiler, con tanto di porcellane di Sèvres fatte in mille pezzi, si sarebbero sentiti piatti volare e infrangersi al suolo. Una registrazione della litigata è stata mandata dal solerte vicino al «Guardian», che però non l’ha fatta circolare, ma l’idea che questa coppia litigiosa e instabile finisca a Downing Street non è piaciuta molto al Paese. Johnson non si è fatto trascinare dalle reiterate richieste di scuse e di un commento e pochi giorni dopo ha affidato a una foto il compito di risanare la situazione: lui e Carrie, seduti a un tavolo in mezzo alla campagna, mano nella mano in un idillio bucolico in cui molti hanno visto la mano di un comunicatore politico più che l’autentica armonia che spesso segue un litigio. L’incidente per ora sembra superato, ma unito ai mille appelli di chi ha lavorato in passato con Johnson e ne denuncia l’inaffidabilità, potrebbe averlo danneggiato davvero.

Ma non è detto che il Regno Unito voglia essere governato da Boris Johnson per sempre. Sicuramente è curioso di vedere come risolverebbe un problema che lui stesso ha contribuito a creare, ossia la Brexit. Il problema, oggi come ieri, è quello di evitare che il no deal diventi la prova di forza estrema di un aspirante leader che pensa di doversi misurare con il nichilismo politico di un Nigel Farage, che con il suo Brexit Party rappresenta nonostante tutto una minaccia per le prossime elezioni generali. Hunt è più morbido sull’idea di rispettare la scadenza del 31 ottobre per uscire dalla Ue e sostiene che se ci vorrà più tempo per avere un buon accordo, Londra chiederà più tempo, ma ha fatto un passo falso definendola una «finta deadline» e ribadendo di volere una «Brexit positiva, aperta e internazionalista», degna di una «Gran» Bretagna e non di una Piccola Inghilterra.

E subito sono fioccate le polemiche, tanto che Hunt ha dovuto scusarsi, mentre come tutti quelli che si avvicinano a Downing Street, anche Boris Johnson sta facendo fatica a mantenere il manicheismo delle prime dichiarazioni sul 31 ottobre, quando diceva che era una questione di «vita o di morte» realizzare la Brexit entro Halloween.

Per non rischiare che questa corsa alla leadership metta a repentaglio il futuro del Paese, c’è chi continua ad ingegnarsi per trovare una soluzione per evitare il no deal a tutti i costi. Il Parlamento ha fatto vari tentativi in questa direzione, senza mai trovare una maggioranza su qualcosa che andasse oltre la vaga indicazione di non volere che il Regno Unito esca dalla Ue senza un accordo che eviti di dover applicare le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio agli scambi con il blocco europeo. Il conservatore Dominic Grieve, insieme alla laburista Margaret Beckett, sta lavorando a un emendamento a una legislazione di bilancio in cui si prevede che non possano essere dati finanziamenti governativi a dipartimenti come le pensioni, la scuola e l’edilizia popolare in caso di no deal, in modo da legare le mani al prossimo premier prima ancora che venga eletto. 

Johnson potrebbe sospendere il parlamento per portare avanti il no deal anche senza l’accordo dei deputati, ma questo darebbe luogo a una crisi assai grave e non è detto che l’ex sindaco voglia intraprendere una strada così drastica. «L’idea che possiamo o dobbiamo essere portati fuori dalla Ue senza il consenso del parlamento è fondamentalmente sbagliata e francamente incostituzionale», ha spiegato Grieve, aggiungendo che «il fatto che sia suggerita come un’opzione fattibile è inaccettabile». Dall’altra parte, quando voteranno l’emendamento martedì 2 luglio, i deputati dovranno scegliere se seguire la strada di un confronto così duro con il governo, sapendo di non avere a loro volta nessuna opzione di Brexit su cui ci sia una maggioranza.