Joe Biden e il rilancio delle alleanze

Il viaggio in Europa del presidente americano è stato un successo, specie a livello simbolico. Ecco i risultati più significativi della missione
/ 21.06.2021
di Federico Rampini

Joe Biden quando era senatore aveva una vera passione per la politica estera. Lo incontravo regolarmente al World economic forum di Davos dove figurava tra gli habitué. Frequentava anche un’importante conferenza strategica a Monaco di Baviera. Per decenni ha coltivato amicizie in Europa, sostenendo che le relazioni umane contano per una diplomazia efficace. Per lui quindi la tournée europea di giugno ha avuto il sapore di una rimpatriata fra amici, anche se gli altri leader in carica appartengono a generazioni più giovani. È stato un gesto di riguardo l’aver riservato al vecchio Continente il primo viaggio in persona dopo i tanti summit in videoconferenza. Gli europei avevano bisogno di essere rassicurati, non solo perché memori dei 4 anni di unilateralismo di Donald Trump ma anche perché tanti segnali confermano che per l’America il centro del mondo si situa nel Pacifico. «Mission accomplished», missione compiuta. Se guardiamo al simbolismo questa visita è stata un successo. «America is back», l’America è tornata, è lo slogan che Biden ha ripetuto a ogni tappa.

L’America non era mai scomparsa ma il ritorno in questione si riferisce al rilancio di una tradizione diplomatica imperniata sulle alleanze. Biden l’ha rinnovata con due aggiornamenti. Anzitutto ha reso esplicito lo scopo di queste alleanze: rafforzare le coalizioni di liberaldemocrazie, in una fase di avanzata degli autoritarismi, in particolare quello cinese. L’altro filo conduttore della visita è stata l’idea che le democrazie devono dimostrare in modo concreto l’efficacia dei propri sistemi politici. Non ci si può accontentare di proclamare in linea di principio la bontà dei nostri valori, bisogna produrre risultati che creino consensi tra i cittadini, così come a modo suo il regime comunista cinese ha realizzato delle performance di sviluppo e modernizzazione innegabili.

In questa luce rivedo le tappe della missione di Biden isolandone i risultati più significativi. Al G7 l’accordo sulla tassa minima globale è stato il pezzo forte. Non bisogna esagerare la portata di quella svolta. Però è un passo nella direzione giusta, indispensabile per cominciare a invertire una tendenza consolidata negli ultimi quarant’anni: siamo vissuti in un mondo dove gli Stati facevano a gara tra loro per attirare multinazionali offrendo privilegi fiscali. Per compensare questo mancato gettito spremevano il ceto medio e le imprese più piccole. Un accordo politico per una tassa minima sui giganti transnazionali è la condizione per cambiare il segno della fiscalità mondiale. Restano tanti ostacoli da superare, ma Biden ha dato un segnale che le democrazie possono rimettere al centro gli interessi dei cittadini.

A Bruxelles la tappa alla Nato ha affermato un principio nuovo. La Cina per la prima volta appare nel comunicato conclusivo di un vertice dell’Alleanza atlantica, dove viene citata 12 volte. Avendo il secondo budget militare del mondo dietro gli Stati uniti, e un arsenale crescente di «nuove armi», le sue ambizioni «pongono un problema» per la Nato. Le guerre del futuro saranno diverse e la Nato riscrive il suo Strategic concept per la prima volta da 11 anni, con un accento forte su cyber-guerre, intelligenza artificiale, disinformazione, hackeraggi. L’Articolo 5, il pilastro del Trattato perché enuncia l’obbligo di intervenire in difesa di uno Stato membro aggredito, verrà aggiornato per includervi le minacce contro i satelliti e i cyber-attacchi. La sfera d’intervento della Nato si allarga verso l’Indo-Pacifico, dove si era già spinta con l’intervento militare in Afghanistan.

Il secondo summit di Bruxelles, fra Usa e Ue, ha dato un risultato concreto. Vengono sospesi per 5 anni dazi che colpivano vini, formaggi e prodotti industriali europei come rappresaglia per i sussidi pubblici al gruppo aeronautico Airbus. Il contenzioso Airbus-Boeing durava da 17 anni e si era condotto a due livelli: da una parte la battaglia legale davanti al tribunale dell'Organizzazione mondiale del commercio dove gli uni e gli altri erano stati condannati per l’uso illecito dei sussidi pubblici ai colossi aeronautici. D’altra parte, in virtù di quelle vittorie in tribunale, sia Washington sia Bruxelles avevano introdotto dazi compensativi-punitivi, su settori non collegati all’aeronautica, ma passibili di infliggere un danno proporzionale. La tregua scongiura il rischio di dazi su 12 miliardi di dollari annui di interscambio. La tregua ha la minaccia cinese come sottofondo. La Cina ha avviato la costruzione del suo polo aeronautico. Il jet passeggeri cinese si chiama C919 ed entrerà in servizio alla fine di quest’anno. Questa è la ragione forte dietro il compromesso tra i referenti governativi di Airbus e Boeing, che vogliono concordare fra loro il limite accettabile degli aiuti pubblici. Per quanto americani ed europei abbiano tutti sostenuto i propri «campioni» con denari pubblici (i contributi statunitensi talvolta erano dissimulati dalla duplice natura di Boeing che costruisce jet passeggeri ma anche apparecchi militari), quando scende in campo il Governo di Pechino si può essere certi che la mole di sussidi erogati fa impallidire gli altri.

Un’altra decisione è la creazione di un Consiglio Usa-Ue per il commercio e la tecnologia. Questo organismo tecnico bilaterale funge da camera di compensazione per prevenire conflitti commerciali, ed è anche un luogo dove americani ed europei concorderanno gli standard globali per le nuove tecnologie, per esempio l’intelligenza artificiale, prima che sia la Cina a farlo. Saper imporre gli standard tecnici universali è sempre stato un segnale di egemonia sul fronte dell’innovazione. Oggi l’Occidente non può dare per scontato che questo primato gli appartenga.

L’incontro di Ginevra con Putin è stato meno sterile di quanto si poteva temere. Il ritorno dei due ambasciatori a Mosca e Washington, che erano stati ritirati in precedenza, è un segnale di normalità. Biden ha elencato terreni sui quali pensa che il dialogo sia stato utile, perché la Russia ha interesse a cooperare: gli aiuti umanitari per portare cibo alla popolazione civile in Siria; l’importanza di evitare che l’Iran si doti dell’arma nucleare; la necessità di mantenere l’Artico fuori da una corsa agli armamenti; la prevenzione del terrorismo in Afghanistan. C’è un’intesa possibile, è la «stabilità strategica” e questo era l’obiettivo minimalista che la Casa Bianca aveva fissato per l’evento di Ginevra. «Riportare le relazioni russo-americane alla prevedibilità»: nemici come prima, ma in un quadro dove certe regole del gioco sono implicite, ciascuno conosce le «linee rosse» dell’altro da non oltrepassare per evitare di innescare crisi incontrollabili.