Tento un esercizio che non è di moda: cercare tutto ciò che unisce Joe Biden e Xi Jinping, anziché dividerli. Non mi riferisco alle cose più ovvie, che avete sentito ripetere con fastidiosa retorica: che l’emergenza ambientale e climatica è una sfida comune, così come la necessità di trovare risposte globali alle pandemie del futuro. Neppure voglio alludere al fatto che sia la Cina sia l’America sono già uscite dalla crisi economica dei lockdown, una crisi molto più breve e molto meno distruttiva di quanto si credesse un anno fa. Ci sono altri temi, più antichi e più durevoli della pandemia, che avvicinano i due leader delle superpotenze rivali.
Sia Biden che Xi governano Nazioni segnate da forti diseguaglianze. Quelle americane si sono allargate dagli anni Ottanta in poi, e questo rimanda alla ricetta neoliberista che si affermò ai tempi di Ronald Reagan. Quel presidente repubblicano fu l’alfiere di una rinascita del capitalismo. Restituì libertà agli «spiriti animali» del capitalismo, riducendo il prelievo fiscale sulle imprese e sui ricchi, allentando le regole e il potere dei sindacati. L’idea era che «quando arriva l’alta marea alza tutte le imbarcazioni, gli yacht dei miliardari e i pescherecci». Cioè, una crescita forte aumenta le dimensioni della torta (la ricchezza nazionale) ed è meno importante redistribuire la torta cambiando le quote destinate ai ricchi e ai meno ricchi. La metafora piacque a Deng Xiaoping, l’artefice della transizione della Cina dal comunismo maoista al capitalismo. La marea si è alzata, la torta cinese è cresciuta, la questione delle diseguaglianze è stata accantonata visto che tutti stanno meglio rispetto al passato.
Biden è convinto che quel modello sia entrato in crisi all’epoca dello schianto finanziario del 2008. La sterzata a sinistra del partito democratico ebbe inizio allora, con un movimento come Occupy Wall Street e l’emergere sulla scena di nuovi politici come Elizabeth Warren e Alexandria Ocasio-Cortez oppure la riscoperta di un vecchio socialista come Bernie Sanders. Biden non viene da quell’ala radicale ma la sua memoria storica affonda le radici in un’America più equa, quella degli anni Sessanta. Vuole rilanciare il modello socialdemocratico di Franklin Roosevelt con il New Deal. Varando una manovra di spesa pubblica redistributiva ha cominciato a redistribuire le fette della torta. Gli sta andando bene perché nel post-covid gli Stati uniti hanno imboccato una crescita col turbo. Vedremo se riuscirà a continuare su questa strada, quando sarà il momento di impugnare l’arma fiscale.
Il tema delle diseguaglianze in Cina è altrettanto esplosivo. I segnali di insofferenza della classe operaia cinese non sono inferiori a quelli che nel Midwest degli Usa portarono all’elezione di Donald Trump. E poi c’è la questione degli immigrati. Questa è meno comprensibile per noi occidentali, perché la Cina non ha un’immigrazione straniera. Ha una massa d’immigrati tutti cinesi. È il popolo transeunte che dalle campagne va a lavorare nelle fabbriche, verso le zone industrializzate, sulle fasce costiere da Pechino-Tianjin a Shanghai, da Guangzhou a Shenzhen. Sono cinesi eppure sono cittadini di serie B. Un sistema rigido di residenza anagrafica li priva degli stessi diritti che hanno i cittadini delle metropoli: la scuola pubblica per i figli, la sanità. Quel sistema spezza le famiglie: gli operai venuti dalle zone rurali devono lasciare i propri figli nelle campagne. E sono esposti ai ricatti dei datori di lavoro visto che sono dei «clandestini in patria».
Xi Jinping ha dichiarato vittoria nella guerra alla povertà ma non può dire altrettanto sulle diseguaglianze. Osserva una rinascita dell’ideologia maoista tra alcune fasce della popolazione. La cavalca, come Biden si appoggia su Sanders. Ma la Cina urbana non vedrebbe di buon occhio una riforma radicale che liberalizzi completamente i movimenti di popolazione. Joe Biden ha deciso di mantenere chiuse le frontiere col Messico, con la scusa del Coronavirus. Xi riabilita Mao ma per adesso mantiene il «muro invisibile» dei diritti fra campagne e città. L’invecchiamento demografico potrebbe costringerlo a mosse più audaci, anche se lui osserva il modello del Giappone, dove denatalità e spopolamento sono stati affrontati senza aprire all’immigrazione, bensì puntando sulla robotica.
Un altro tema comune è lo strapotere di Big tech. La Cina si è accorta che uno dei suoi colossi digitali, il gruppo Alibaba-Ant-Alipay, gestisce grazie ad una app su smartphone pagamenti e prestiti e investimenti superiori al Pil della Cina. Una superbanca più grande di tutte le banche è germinata da una rivoluzione tecnologica, spiazzando il Governo. Ora Pechino riprende l’iniziativa, lo Stato vuole piegare alla propria volontà i miliardari del digitale, impone nuovi limiti e nuove regole. Biden ha lo stesso problema, dopo una pandemia che ha segnato il trionfo di Big tech, il predominio soverchiante di Amazon, Apple, Google, Facebook, Microsoft. Piegare questi poteri forti è meno facile per un presidente democratico, visto che l’establishment digitale lo ha aiutato a vincere le elezioni. L’avanguardia dell’antitrust si sposta da Washington a Pechino?
Sulla lotta all’emergenza climatica i due hanno esattamente lo stesso bisogno: convincere i propri cittadini che l’ambientalismo crea posti di lavoro, non «decrescita infelice». Biden rivaluta, proprio come Xi Jinping, il ruolo dello Stato nell’economia. La Cina ha aperto la strada, mettendo al centro delle sue strategie le grandi imprese pubbliche. Biden non ha più imprese pubbliche ma riscopre la «politica industriale» a base di sussidi, aiuti, incentivi, investimenti pubblici nelle tecnologie del futuro.
Il presidente americano ha due ragioni per «invidiare» il suo omologo cinese, anche se non potrà mai ammetterlo. La prima è la durata. Xi lanciò il suo progetto di «primato mondiale nelle tecnologie avanzate» quando arrivò al potere nel 2012. Sarà ancora al potere dieci anni dopo, e forse molto più a lungo, per portare a compimento quel piano. Biden fra un anno e mezzo affronta il verdetto delle urne e potrebbe perdere la maggioranza al Congresso.
L’altra ragione d’invidia è perfino più sostanziale. Xi Jinping usa il nazionalismo come collante, per spronare i cinesi alla coesione. Una maggioranza dei suoi cittadini lo approva e lo segue su quel terreno, soprattutto nel ceppo etnico maggioritario degli Han. Joe Biden governa una nazione lacerata. Quasi mezza America (repubblicana) lo considera un usurpatore. Nell’altra metà c’è chi pensa che l’America sia l’Impero del male, una Nazione segnata «geneticamente» dal razzismo, dal sessismo, dalle discriminazioni contro le minoranze, oltre che da un passato imperialista.
Joe Biden come Xi Jinping
Il presidente Usa e il leader cinese hanno più di una cosa in comune. Dal fatto di governare Nazioni segnate da forti diseguaglianze alla volontà di piegare i giganti del digitale
/ 17.05.2021
di Federico Rampini
di Federico Rampini