Per il Movimento Cinque Stelle quella piazza torinese così affollata è stata un amaro calice. Non solo perché trentamila persone manifestavano a favore della TAV, la controversa linea ferroviaria ad alta velocità che attraversa la Val di Susa, ma anche perché in piazza, oltre al Partito democratico e a Forza Italia, c’era una rappresentanza della Lega di Matteo Salvini. Cioè gli alleati di maggioranza e di governo, firmatari di quel patto che i contraenti afferrano ognuno dalla sua parte rischiando di lacerarlo. La TAV, che è la tratta Lione-Torino di un collegamento trans-europeo, i Cinquestelle vorrebbero bloccarla, affiancandosi a un vasto movimento di protesta, per ragioni di rispetto ambientale e priorità di spese. Ma la Lega non se la sente, in nome del Nord imprenditoriale, di fermare un’opera ormai in fase avanzata di preparazione, che dunque è già costata un sacco di soldi: propone dunque di affidare la decisione a un referendum. Probabilmente timorosi di perderlo, i Cinquestelle si oppongono, proprio loro che si dicono fautori della democrazia diretta.
Fra poche settimane sarà passato un anno dalla clamorosa affermazione elettorale che ha portato al governo questi rissosi comprimari. Le vicende degli ultimi mesi dimostrano che solo due elementi li uniscono: il fatto di presentarsi come forze anti-sistema desiderose di farla finita con la vecchia politica, e l’ostilità ai vincoli impliciti nell’appartenenza all’Unione europea. Populismo e sovranismo sono le due pulsioni che nonostante tutto tengono insieme questo governo. Per il resto è un bisticcio continuo. All’origine di una situazione così precaria un dato di antropologia politica legato alla collocazione geografica degli elettorati. Il Movimento è forte soprattutto nel Sud della disoccupazione di massa e della tradizione assistenzialistica, mentre la Lega, che pure è stata protagonista di una metamorfosi da forza regionale e secessionista a partito nazionale, ha fatto incetta di consensi nel Nord produttivo che invoca sgravi tributari a vantaggio della competitività.
Dunque da una parte i leghisti favorevoli a un condono fiscale che dia ossigeno alle imprese e ne favorisca il rilancio sui mercati internazionali, dall’altra i grillini che agitano il vessillo del reddito di cittadinanza per contrastare la povertà sempre più diffusa, soprattutto al Sud. Le due parti litigano anche sul tema spinoso dei migranti: Salvini non perde occasione per fare la voce grossa e sbandierare la diminuzione, anzi il quasi annullamento, degli sbarchi conseguito alla sua politica di netta chiusura (ma già il fenomeno era stato ridimensionato dal governo Gentiloni), i Cinquestelle hanno una posizione più aperta, anche se non si spingono fino a fare dell’accoglienza una priorità umanitaria e morale.
Lo si è visto nel caso dei quarantanove naufraghi soccorsi dalle navi di due ONG, alle quali sia Malta sia l’Italia hanno lungamente negato l’approdo. Alla fine, dopo che il vicepresidente Luigi Di Maio aveva proposto di ospitare le donne e i bambini dividendo le famiglie in fuga, un accordo faticosamente negoziato dal presidente del consiglio Giuseppe Conte ha portato a una distribuzione dei migranti in alcuni paesi europei, fra i quali l’Italia. Salvini, vicepresidente e ministro dell’Interno, si è sentito scavalcato e ha reagito ribadendo il punto: i nostri porti restano chiusi, noi non accoglieremo nessuno. A risolvere una situazione imbarazzante che minacciava di precipitare, ecco il provvidenziale intervento della Chiesa valdese: i migranti destinati all’Italia li accoglieranno loro, senza oneri per lo Stato.
I due partiti di governo bisticciano perfino sulle vaccinazioni. Dopo che si è profilata una diffusa protesta contro l’obbligatorietà di questa misura di prevenzione, i Cinquestelle se ne sono fatti interpreti mentre la Lega è tendenzialmente favorevole. Poi è accaduto un fatto nuovo: il padre fondatore del Movimento Beppe Grillo, fino a quel momento ostile ai vaccini obbligati, ha firmato un documento che ne sottolinea la necessità e l’attendibilità scientifica. A questo punto la rete è insorta, sul comico-politico e la sua conversione è precipitata una valanga d’insulti, fra i meno feroci l’accusa di tradimento. Forse per recuperare la stima del suo popolo deluso, Grillo si è prodotto in un attacco a tutto campo all’alleato Salvini, chiamandone beffardamente in causa la madre: «se quella sera avesse preso la pillola...».
In un Paese in cui la politica ha cessato da tempo di brillare per sfoggio di stile, questi toni ormai non colpiscono più di tanto. Il linguaggio si è fatto pesante, al posto dell’ironia e del sarcasmo che qualche volta smussavano le parole della polemica, trionfano l’intolleranza verbale e l’ingiuria plebea. Il modello investe anche le alte sfere istituzionali, il vicepresidente Salvini non esita a commentare con un «marcirà in galera!» l’arresto e l’estradizione di un terrorista a lungo latitante che deve scontare l’ergastolo per alcuni efferati omicidi. L’avesse detto la vedova o il figlio di una vittima, ma un ministro della repubblica... Il fatto è che Salvini si propone insieme come uomo di governo e agitatore politico, guadagnando popolarità soprattutto con il mantra dei migranti invasori. La tecnica è chiara, sostiene uno dei suoi molti critici: iniettare veleno nella società per poi vendere l’antidoto.
La continua avanzata della Lega, prevalentemente a scapito degli alleati, è uno degli elementi di spicco di questa esperienza di governo. I sondaggi rivelano che il partito di Salvini ha quasi raddoppiato il 17 per cento del 4 marzo, registrando solo nelle ultime settimane un arresto della tendenza. I grillini hanno invece perduto una decina di punti dal 32 per cento del voto di marzo, cedendo ai rivali lo scettro di prima forza politica. L’altro elemento evidente in questa fase è il progressivo emergere della figura di Conte, il presidente del consiglio che sembrava confinato a un ruolo di esecutore, con il potere saldamente nelle mani di Salvini e Di Maio. Abile negoziatore, spedito a Bruxelles come volto presentabile di un governo che suscita diffuse inquietudini, l’uomo che all’inizio del mandato si presentò come «avvocato degli italiani» è riuscito a ritagliarsi uno spazio proprio, mediando fra le discordie degli alleati.
La prospettiva delle elezioni europee del prossimo maggio induce i due azionisti del governo italiano a posizionarsi con le forze politiche omogenee degli altri paesi. E anche qui ognuno procede a modo suo: prendendo le distanze dalla Lega, Di Maio cerca partiti fratelli con i quali costituire nel parlamento di Strasburgo un gruppo che si richiami alla democrazia diretta. Salvini punta invece a un’alleanza con il Partito popolare, maggioritario oggi e forse anche domani, di cui prevede una svolta sovranista favorita dall’auspicato successo delle componenti guidate dall’ungherese Viktor Orbán e dall’austriaco Sebastian Kurz, oltre alla CSU del bavarese Horst Seehofer. Il leader leghista è inoltre in stretto contatto con il polacco Jarosław Kaczyński, che appoggia a Strasburgo il gruppo Conservatori e riformisti. Obiettivo comune un’Europa che restituisca sovranità agli Stati e la pianti di ficcare il naso nei bilanci nazionali. Ma sull’asse Roma-Bruxelles grava l’ombra di un dubbio: reggerà questa litigiosa coalizione fino all’appuntamento elettorale di maggio?