Giorni di fuoco in Medio Oriente alla vigilia delle elezioni parlamentari del 17 settembre che dovrebbero garantire ad Israele un governo stabile dopo la delusione delle politiche di aprile che non hanno saputo esprimere un vincitore indiscusso. Inutile ricordare che il «mattatore» di questa vigilia altri non è che il primo ministro uscente Benjamin Netanyahu, disposto a tutto pur di rimanere in sella. Ma basta l’attesa dell’apertura delle urne per giustificare l’esibizione di muscoli da parte di Israele contro tre paesi del Medio Oriente cui stiamo assistendo in nelle ultime settimane?
Evidentemente no, anche se Netanyahu ha impostato tutta la sua campagna elettorale sul tema della sicurezza e sul pericolo rappresentato dall’Iran e dai suoi alleati o sodali nella regione. Tra di loro, senza contare la Siria che è uno Stato, i più importanti sono sicuramente quel Partito di Dio – o Hezbollah che dir si voglia – diventato ormai il vero padrone del Libano, in secondo luogo le Forze di mobilitazione popolare (al-Hashd ash-Sha῾abi), una quarantina di organizzazioni composte principalmente da volontari in maggioranza sciiti, create in Iraq all’indomani della conquista di Mosul da parte dell’Isis il 10 giugno 2014.
Volute dalla massima autorità sciita irachena, l’ayatollah Ali al-Sistani per combattere proprio il sedicente Califfato, le al-Hashd ash-Sha῾abi sono state addestrate dai Guardiani della rivoluzione, i pasdaran iraniani, e assieme a loro, all’esercito turco e all’aviazione russa hanno contribuito – oltre a sconfiggere l’Isis assieme ai caccia americani – anche a tenere in piedi la dittatura di Bashar al-Assad in Siria. In patria sono diventate talmente forti da coalizzarsi in un partito politico, l’Alleanza della conquista o Alleanza Fatah. E proprio le loro postazioni al valico di Qaim tra Iraq e Siria, nella settimana iniziata il 19 agosto sono state colpite dall’aviazione israeliana. Il diritto di rispondere allo Stato ebraico che le milizie sciite si sono arrogate rischia di aggravare lo stato di anarchia strisciante che continua a minare la stabilità della neonata democrazia irachena.
Nella notte tra il 24 e il 25 agosto scorso l’aviazione e i droni con la stella di Davide hanno poi colpito una presunta base della Brigata al-Quds, il braccio armato dei pasdaran iraniani all’estero, nei pressi di Damasco. Lì per lì Teheran ha smentito che si trattasse di una postazione dei propri Guardiani della rivoluzione, mentre gli Hezbollah libanesi la rivendicavano come propria. Nella ridda di ipotesi, ci ha pensato direttamente Netanyahu a fare chiarezza a modo suo rivendicando il raid come azione preventiva per impedire all’Iran di lanciare dalla Siria un attacco contro la Galilea del Nord. Visto che Israele colpisce la Siria a ogni piè sospinto, la novità di questo raid non è stata l’attacco in sé, quanto il fatto che Netanyahu l’abbia rivendicato apertamente, cosa che prima d’ora Israele ha sempre evitato di fare in occasioni simili.
Il giorno dopo, il 25 agosto, i suoi droni hanno colpito due postazioni di Hezbollah nella periferia meridionale di Beirut in Libano e a Qusaya nella valle della Bekaa, hanno fatto saltare in aria anche una palazzina appartenente al Fronte popolare per la liberazione della Palestina-Comando Ahmed Jibril, un vecchio arnese della frammentazione del fronte palestinese nella lotta contro Israele ai tempi della Guerra fredda.
Il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, non ha perso tempo a rispondere minacciando feroci rappresaglie, mentre il presidente libanese, il cristiano maronita Michel Aoun, alleato del Partito di Dio, ha parlato apertamente di «atto di guerra» di Israele contro il Libano.
Infine nel fatale weekend del 24-25, l’ultima ad essere colpita è stata la Striscia di Gaza, regno di Hamas, da cui erano partiti diversi missili piovuti sulla cittadina israeliana di Sderot. Ancora la mattina del 28 diverse esplosioni a Gaza City facevano temere un nuovo attacco dell’aviazione israeliana, prima che venisse avanzata l’ipotesi che kamikaze dell’Isis si fossero fatti saltare in aria in due checkpoint.
Torniamo allora a chiederci: tanto rullar di tamburi di guerra solo a fini elettorali? La cosa non è da escludere in toto, ma nel caos che regna in tutto il Medio Oriente dallo scoppio delle Primavere arabe del 2011 l’Israele deve tenere sotto controllo la situazione perché il pericolo per la sua sopravvivenza può arrivare da qualsiasi paese. Si può discutere in che modo possa garantirsi questo controllo, ma non il diritto di salvaguardare la propria sicurezza. Nella congiuntura attuale la crescente militarizzazione dello scontro tra Israele e l’Iran sembra piuttosto un avvertimento lanciato dal premier israeliano non solo a Teheran ma anche a Macron (leggi Europa) che ha fatto apparire a sorpresa il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif al vertice del G7 di Biarritz, terminato il 26 agosto , e a Donald Trump che proprio a Biarritz non ha escluso la possibilità di incontrare il presidente iraniano Rouhani.
Dal canto suo Rouhani ha subito messo le mani avanti precisando che non ci potrà essere nessun incontro se gli Usa non ritireranno le sanzioni che hanno messo in ginocchio l’economia del suo Paese. Che il rendez-vous fatale avvenga o meno, per Netanyahu l’importante è aver lanciato il messaggio in maniera chiara: che gli Usa, i migliori alleati dello Stato ebraico, facciano quello che vogliono, ma – se si tratta dell’Iran – Israele è pronto a provvedere da sé alla tutela della propria sicurezza. Con tutti i rischi che questo che comporta.