Israele a rischio disintegrazione

Le violenze scoppiate fra ebrei e arabi di casa nonché la creazione di una coalizione anti-Netanyahu che comprende un partito vicino alla Fratellanza musulmana mostrano quanto siano fragili gli equilibri interni
/ 14.06.2021
di Lucio Caracciolo

La questione palestinese è congelata. È invece esplosa, inattesa, la questione israeliana. In discussione sono coesione e carattere dello Stato ebraico. L’esito davvero rilevante della «guerretta» degli undici giorni fra Hamas e Israele è questo. Perché il periodico, tragico scambio di missili fa parte ormai delle abitudini consolidate nella competizione consociativa fra Israele e Gaza. Per gli strateghi israeliani si tratta di «falciare l’erba» periodicamente, sapendo che dopo pochi giorni si tornerà alla situazione di partenza, o quasi. Con centinaia di morti e di feriti soprattutto palestinesi ma anche israeliani.

Sullo sfondo delle devastazioni missilistiche reciproche, a Gerusalemme e in alcune città miste di Israele – ovvero località in cui convivono arabi ed ebrei – sono scoppiate violenze gravi. Protagonisti giovani estremisti arabi ed ebrei. Pretesto, lo sfratto di alcune famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est – la concentrazione araba nella città contesa – sulla base di una legge che permette a famiglie ebree di rivendicare il possesso di edifici appartenuti ai loro avi. Insieme a disordini scoppiati nelle aree più sacre della Città vecchia, attorno al Monte del tempio (al-Haram al-Sharif), questi scontri hanno assunto un tale grado di violenza da far gridare alcuni leader israeliani alla «guerra civile». Esagerazioni, frutto anche del carattere del tutto inatteso degli eventi. Ma allo stesso tempo segno di quanto acute siano le questioni identitarie che serpeggiano da sempre in Israele.

Si dava infatti per scontato, fino a ieri, che gli arabi israeliani fossero abbastanza integrati nello Stato ebraico. In quanto più affezionati ai privilegi offerti comunque da Israele ai suoi cittadini, ben superiori a quelli fruibili sotto l’Autorità nazionale palestinese tuttora affidata alla senile guida di Abu Mazen e ai traffici delle mafie che vi imperversano. Improvvisamente scopriamo che quegli arabi si sentono palestinesi, e come tali si rivoltano. E che i loro parenti d’Oltremuro, in Cisgiordania e a Gaza, tendono a solidarizzare con la ribellione degli arabi israeliani (meglio arabi in Israele).

Ulteriore paradosso vuole che in quei giorni di piccola guerra e di ben più rilevante sommossa si formi e consolidi una coalizione di tutte le forze di opposizione al premier Bibi Netanyahu, padre padrone di Israele per almeno dodici anni, nella quale un partito arabo israeliano è direttamente coinvolto (Ra’am). Tale partito appartiene alla galassia della Fratellanza musulmana. Dunque alla stessa organizzazione-ombrello di Hamas. Mentre l’esercito israeliano bombarda Hamas a Gaza, politici israeliani ebrei negoziano e concludono un accordo di Governo con una filiazione di Hamas nel nome del principio «dentro tutti, fuori Netanyahu».
Vedremo nei prossimi giorni se questa acrobatica operazione, che coinvolge partiti di sinistra, centro e destra anche estrema porterà alla formazione di un nuovo Governo sostenuto dal partito arabo Ra’am. Certo che questo evento sarebbe conferma della confusione che regna nell’establishment di Israele.

Gli eventi di maggio, tutt’altro che sedati, svelano il carattere tribale dello Stato ebraico. Segnalato nel 2015 dallo stesso presidente Reuven Rivlin (uscente ai primi di luglio) nell’ormai famoso discorso delle «quattro tribù». Rivlin vi segnalava il rischio di disintegrazione dello Stato ebraico, causa la sua variegata composizione etnico-religiosa. Di base circa due milioni di arabi convivono con oltre sette milioni di ebrei. Ma fra gli ebrei si consolidano, al di là delle partizioni classiche (ashkenaziti e sefarditi, per citare la principale, storica), quattro diverse tribù. Le quali hanno fra loro poco a che spartire. Esse si basano su quattro sistemi di istruzione primaria che non hanno molto in comune. Si tratta in primo luogo degli ebrei secolari (laici), che valgono circa il 38 per cento della popolazione. A seguire gli ebrei ultraortodossi (haredim), con il 25 per cento, e i nazional-religiosi (15 per cento). Infine gli scolari arabi che le proiezioni danno presto vicini a rappresentare un quarto del totale. Verso la metà del secolo questi gruppi dovrebbero dividersi paritariamente (attorno al 25 per cento ciascuno) i giovani studenti israeliani.

Lo Stato ebraico ha fatto della lotta permanente per sopravvivere il suo marchio identitario. Ma senza una pedagogia nazionale, comune a tutti, difficile che possa darsi quel grado di coesione necessario a tenere insieme, compatto e combattivo, il fronte interno nel momento in cui scoppiasse una guerra vera. È per questo che Israele prende molto sul serio la sequenza di violenze fra ebrei e arabi di casa. La linea rossa che preserva la coerenza al suo interno è meno netta di prima. Un’incertezza che lo Stato ebraico non può permettersi.