Isis e petrolio, la vera posta in gioco

Libia: A cinque anni dalla morte di Gheddafi il Paese resta nel caos
/ 31.10.2006
di Alfredo Venturi

A cinque anni dalla morte di Gheddafi la Libia è ancora immersa in un marasma indecifrabile. Quella che fu la Jamahiriya, una feroce dittatura personale travestita da democrazia diretta, offre al mondo lo spettacolo di una quantità di milizie armate, espressioni del centinaio di tribù in cui si articola la popolazione, impegnate in una lotta per il potere apparentemente priva di sbocchi. Un governo d’intesa nazionale voluto dalle Nazioni Unite, e quasi clandestinamente installato a Tripoli, tenta di venire a patti con l’autorità alternativa di Tobruk, sorretta dall’Egitto, e con l’esercito del generale Khalifa Haftar. Sono due le poste in gioco, il controllo del petrolio e la lotta contro l’Isis, presente nel Paese con una forza di alcune migliaia di uomini, che dopo essere stato sloggiato da Derna è tuttora presente a Sirte e altrove.

Il caos libico offre ai jihadisti un contesto quanto mai favorevole, tanto più prezioso per gli uomini del Califfato nel momento in cui rischiano di perdere le loro posizioni in Iraq e Siria, cioè l’essenza territoriale dello Stato islamico. Inoltre l’Isis vede la Libia come un trampolino verso l’Europa, non a caso qualche tempo fa lanciò un video in cui si indicava Roma come obiettivo militare, con tanto di carri armati in marcia verso il Colosseo e bandiera nera issata sulla cupola di San Pietro. A questa inquietante presenza a poca distanza dalle coste meridionali europee si aggiungono altri due corollari della cronica instabilità libica. Si tratta di fenomeni governati da dinamiche contrastanti: il flusso dei migranti che attraversano quel braccio di mare, dalle dimensioni sempre più massicce, e quello del petrolio che al contrario la lunga crisi ha ridotto ai minimi termini.

Tutto questo spiega la nervosa attenzione con cui la comunità internazionale, da sempre incerta sul da farsi, guarda alla Libia in fiamme. Le diplomazie si affannano attorno a una triplice esigenza: neutralizzare quella che l’Isis considera una testa di ponte verso l’Europa, mettere sotto controllo il travaso demografico dall’Africa verso l’Europa, permettere il ritorno delle esportazioni di petrolio ai valori pre-crisi, un milione e mezzo di barili al giorno. Oggi ne esce dalla Libia appena un terzo: le forze del generale Haftar si sono assicurate la vigilanza della maggior parte degli impianti e dei terminali, mentre il governo d’intesa nazionale di Fayez al-Sarraj sembra fuori gioco, nonostante i suoi appoggi internazionali.

Dopo che il maldestro intervento voluto nel 2011 da Londra e Parigi ha sì liberato il Paese da una sanguinaria dittatura, ma senza preparare un dopo-Gheddafi e dunque creando le condizioni dell’attuale instabilità, l’atteggiamento delle cancellerie è divenuto più prudente. Si è fatto strada un nuovo galateo delle missioni militari, che non sono più nominalmente tali e si limitano a operazioni di intelligence, addestramento delle truppe amiche, sminamento, protezione dei cittadini stranieri. Combattimento solo in caso di autodifesa. Il fatto che queste forze operano nel quadro dei servizi permette di superare l’ostacolo che le nostre democrazie pongono sulla strada degli interventi militari: l’approvazione parlamentare. Di fatto forze speciali americane, britanniche, francesi e italiane sono presenti sul territorio, ma di queste presenze si preferisce non parlare. Oggi l’ordine di grandezza è delle centinaia di uomini, ma la cronicità della crisi fa pensare a una consistenza destinata a dilatarsi.

In particolare l’Italia viene sollecitata a un maggiore impegno in Libia. L’invito è stato recentemente ribadito da Barack Obama quando ha ricevuto a Washington Matteo Renzi. La ragione è che l’Italia è in prima linea, per la sua collocazione geografica, sia di fronte alla minaccia Isis, sia in relazione al fenomeno migratorio, che va sempre più assumendo caratteri di esodo e dopo la chiusura della rotta balcanica è diretto prevalentemente in Sicilia. È un problema che il governo di Roma cerca da sempre, con scarso successo, di condividere con l’Europa intera. Ma l’idea di un’Italia impegnata in Libia, geografia a parte, solleva imbarazzanti richiami storici. Non a caso qualche mese fa Abu Yusuf al-Anabi, il numero due del ramo maghrebino di al-Qaeda, proclamò pubblicamente che «i nipoti di Graziani si pentiranno di essere entrati nella terra di Omar al-Mukhtar».

Al-Anabi cita dunque il generale Rodolfo Graziani, che nel 1931 fu incaricato da Benito Mussolini di «pacificare» la Cirenaica, ribelle all’ordine coloniale, con l’ordine esplicito di «pestare duro», e non se lo fece dire due volte. Con l’uso delle incursioni aeree e dei gas, le deportazioni dai villaggi ribelli ai campi di concentramento per isolare i miliziani dalla loro base popolare, e infine la pubblica impiccagione di al-Mukhtar, il capo della resistenza, Graziani riuscì a stroncare la ribellione. E così i jihadisti, di fronte all’interventismo occidentale, agitano la bandiera dell’anti-colonialismo, di grande efficacia in un Paese che conobbe il giogo straniero. Poiché si ammantano di motivazioni religiose, per loro colonialisti è sinonimo di crociati, la quintessenza del male nell’ottica dei terroristi neri, siano essi aderenti al Califfato o alla galassia di al-Qaeda.

Del resto anche Gheddafi individuò nell’anti-colonialismo un collante per tenere insieme quel guazzabuglio di tribù reciprocamente ostili. Due anni prima della caduta, il dittatore in visita di Stato a Roma si presentò con appuntata sul petto la foto di al-Mukhtar in catene. L’eroe della resistenza anti-italiana era cirenaico, veniva cioè da una parte del Paese non soltanto geograficamente ma anche storicamente lontana da Tripoli. Fu proprio il governo coloniale di Roma a unificare i due territori (e il terzo, quello del Fezzan), che da sempre avevano avuto esperienze differenziate. Erano province distinte nell’amministrazione turca che precedette la conquista italiana, erano state mondi diversi fin dall’antichità, quando la Cirenaica gravitava nel firmamento greco-bizantino mentre la parte occidentale del Paese faceva parte dell’Africa berbera. Oggi la dicotomia Tripoli-Tobruk, con le due autorità concorrenti e rivali, non fa che riproporre questa costante storica.

Proprio a Tripoli e Tobruk s’iniziò oltre un secolo fa la guerra italo-turca. Il 4 ottobre 1911 i primi fanti di marina sbarcarono a Tobruk, il giorno dopo a Tripoli. Poi arrivò il resto della forza d’invasione, due divisioni più alcuni reparti supplementari, in tutto trentacinquemila uomini agli ordini del generale Carlo Caneva. Senza contare la marina che teneva alla larga la flotta ottomana, e la nascente aviazione che proprio durante questo conflitto si produsse nel primo bombardamento aereo della storia: granate a mano scaraventate su una base turca nell’oasi di Ain Zara dal tenente Giulio Gavotti ai comandi del suo monoplano Taube. Ci vorranno molti anni, e la brutale missione di Graziani, per fare della Libia una colonia di popolamento, fino a trasformarsi in campo di battaglia con la seconda guerra mondiale. Ancora oggi il deserto libico, così come il confinante territorio egiziano, è disseminato di mine, ricordo dello scontro fra le forze dell’Asse e gli alleati culminato nella battaglia di el-Alamein. Un retaggio davvero ingombrante, un’ombra scura sulle relazioni fra Roma e la «quarta sponda». Un elemento che ostacola, oggi, qualsiasi approccio italiano alla questione libica.