L’Iran è una nazione o un regime? Henry Kissinger poneva così, qualche anno fa, il dilemma geopolitico della Persia contemporanea. Quattro decenni dopo la rivoluzione khomeinista, la domanda attende ancora risposta. Ma questa risposta è decisiva per collocare l’Iran nello scacchiere geopolitico regionale, in fase di acuto e non pacifico riassestamento. Se (pre)vale la nazione – o meglio l’impero, dato che la rappresentazione della trascorsa millenaria grandezza domina sempre le carte mentali delle élite iraniane – allora un accomodamento nel contesto mediorientale diventa meno problematico, comunque molto più pragmatico. Se invece la logica è quella del regime, con la sua roboante retorica islamista e anti-israeliana, allora il rischio che la competizione per l’egemonia regionale finisca in guerra diventa più corposo.
L’Iran è uno dei quattro soggetti di potenza in Medio Oriente. Gli altri tre sono la Turchia, Israele e l’Arabia Saudita. Ad accomunare Teheran, Ankara e Gerusalemme è la radice non araba – anzi, anti-araba – di quei Paesi. A distinguere Riyad, oltre alla matrice araba esplicitata nel nome, il fatto che si tratti di una famiglia, molto allargata e particolarmente rissosa, la quale si è intestata una collana di giacimenti petroliferi, sui quali vive di rendita, e le due massime città sante dell’islam – Mecca e Medina – che le garantiscono una legittimità georeligiosa.
In questo contesto, l’Iran non ha alleati. Ha due nemici principali, Arabia Saudita e Israele, mentre con la Turchia il rapporto, storicamente burrascoso, appare oggi tinto di qualche ambiguità. Su scala globale, un certo allineamento di interessi ha avvicinato la Persia (Iran) alla Russia, malgrado la memoria dell’occupazione sovietica nel Nord del paese, tra 1945 e 1946, resti viva. Con la Cina le intese sono energetico-pragmatiche, segnate dalla reciproca diffidenza e dal confine conteso fra Iran e Pakistan, quest’ultimo essendo in buona misura satellite di Pechino. Su tutti, sovraordinata quanto incerta nelle sue linee strategiche, l’America. Alleata della Turchia, con cui peraltro è in permanente tensione, intima di Israele, che considera Stato gemello, e legata a Riyad dallo scambio fra petrolio saudita e protezione a stelle e strisce – peraltro in crisi dopo l’affare Kashoggi.
Teheran sta cercando di uscire dall’isolamento, accentuato dal congedo degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, cui li aveva spinti Obama, desideroso di riequilibrare la collocazione del suo Paese in Medio Oriente. Oggi la postura di Washington è palesemente aggressiva. Non passa quasi giorno che dagli Stati Uniti non giunga un minaccioso avvertimento al regime iraniano, quasi a preludere alla guerra. L’obiettivo dei «falchi» – l’ala neocon dell’amministrazione Trump, guidata da Bolton – resta il cambio di regime a Teheran. Vasto programma.
Con la guerra in Siria si è per la prima volta assistito a scontri diretti fra israeliani e iraniani. Gerusalemme ha messo nel mirino i pasdaran che hanno tenuto in piedi il regime di Damasco, con l’aiuto del loro braccio libanese (Hezbollah), di milizie sciite irachene e della Russia. E qui la questione iniziale diventa dirimente. L’Iran-regime considera Israele il nemico per eccellenza. La retorica pubblica dei suoi esponenti, specie in alcuni ambiti del clero e dei pasdaran, è su questo devastante. L’entità sionista (Israele) va distrutta e Gerusalemme «liberata». L’Iran-impero vanta invece una tradizione di dialogo e di rispetto degli ebrei, fin dall’epoca di Ciro. La borghesia ebraica è considerata uno dei fattori di sviluppo e di modernità che hanno tenuto in piedi l’economia nazionale. Inoltre, ebrei e persiani condividono un formidabile senso di superiorità nei confronti degli arabi, neanche si trattasse di tribali subumani. Una futura cooperazione fra Iran e Israele, come ai tempi dello scià, non è quindi da escludere, stando a tale scuola di pensiero.
Paradosso strategico vuole che la scelta reciproca di demonizzarsi abbia spinto gli israeliani a un curioso allineamento con i regimi arabi del Golfo e gli iraniani a uno sdegnoso autoisolamento. Di qui alla guerra Israele-Iran – più volte sfiorata negli anni passati, quando Netanyahu avrebbe voluto colpire le installazioni nucleari iraniani essendo trattenuto in extremis dai suoi militari e dagli americani – il passo non è lunghissimo. In questa vigilia di elezioni in Israele, la minaccia di attaccare l’Iran si è fatta più esplicita e ripetuta: Netanyahu spera che un conflitto limitato con i persiani possa garantirgli la riconferma da premier.
Il gioco si sta facendo pericoloso. Possiamo sperare che a Teheran prevalga la vena imperiale sulla retorica islamista – e suicida – del regime. Ma non è affatto scontato.