In questi giorni in Iran è tutto un rimpallarsi di responsabilità tra le varie forze del regime, nessuna delle quali vuole ammettere la sconfitta subìta con l’uccisione per strada del generale e scienziato Mohsen Fakhrizadeh. Venerdì 27 novembre attorno alle due del pomeriggio un convoglio di sicurezza formato da alcune auto (i dettagli precisi non sono ancora usciti e forse non usciranno mai) stava scortando il generale a visitare i genitori della moglie, poco fuori Teheran. Lui era il capo dell’organizzazione segreta militare che si occupa anche della ricerca atomica dell’Iran e come tale da parecchi anni era considerato il probabile bersaglio di un’operazione dell’intelligence israeliana. Viveva sotto la protezione di una scorta, si spostava in incognito e mai sullo stesso percorso per due volte di seguito e aveva adottato le precauzioni di un latitante: niente foto, niente interviste, niente indirizzo, niente appuntamenti in pubblico.
Quando nel 2016 il regime iraniano aveva premiato con una cerimonia i negoziatori del patto atomico con gli Stati Uniti anche lui aveva ricevuto una medaglia, ma subito dopo e in forma riservata – dentro a una stanza accanto al palco lontano da fotografi e telecamere. E tuttavia tutta questa cautela non ha funzionato, perché un gruppo di fuoco lo ha individuato, lo ha sorvegliato, ha ricevuto in anticipo la soffiata giusta sulla strada che avrebbe percorso e lo ha aspettato per ucciderlo su un tratto di strada fra i campi dove non c’erano testimoni.
Gli uomini che facevano parte del gruppo di fuoco mandato a uccidere il generale Fakhrizadeh hanno fatto saltare in aria un’autobomba, una Nissan blu, per bloccare la sua auto e poi hanno cominciato una sparatoria violentissima con la sua scorta. Il tutto è durato pochi minuti. L’hanno trascinato fuori, l’hanno ucciso, hanno risparmiato la moglie che era seduta in macchina con lui e sono spariti nel nulla. Era uno degli uomini più protetti dell’Iran. Era a dieci minuti di macchina dalla capitale del Paese. È stato ucciso lo stesso in mezzo a una strada.
E così l’apparato di sicurezza dell’Iran è entrato in fibrillazione, perché tutti hanno un’idea precisa su chi è stato, è uno dei segreti-che-chiunque-conosce del Medio Oriente, è stata l’intelligence israeliana, ma la cosa più urgente tra gli iraniani che contano è non prendersi la colpa del fallimento. Le fazioni che formano il regime sono sempre pronte a sfruttare gli errori delle fazioni rivali e questa è stata un’umiliazione imperdonabile, capace di provocare cambiamenti importanti nei rapporti di forza interni.
Le Guardie della rivoluzione che erano responsabili per la protezione del generale dopo avere parlato a caldo nelle prime ore di un gruppo di sicari e di un attacco terroristico suicida hanno cambiato d’improvviso versione: ora attraverso le loro agenzie di stampa accusano un non meglio precisato killer robot israeliano, che piazzato a bordo della Nissan blu avrebbe prima crivellato di proiettili il generale/scienziato e poi si sarebbe autodistrutto – ma l’esplosione non è stata abbastanza potente da impedire agli iraniani di trovare «armi israeliane» sul luogo dell’attacco o almeno così hanno dichiarato (come se il nemico non fosse in grado di procurarsi altre armi per un’operazione sotto copertura). Il sottinteso di questa versione è: non siamo colpevoli, non c’era nessuno quel giorno ad aspettare il convoglio di Fakhrizadeh, c’era soltanto un’auto vuota, come facevamo a sapere, non potevamo immaginare che da quell’auto sarebbe sbucata una mitragliatrice robot telecomandata a distanza. Se siamo colpevoli è soltanto di non avere previsto l’imprevedibile perfidia tecnologica dei nostri nemici.
L’espediente non funziona. Circolano vignette satiriche che deridono la versione delle Guardie della rivoluzione e persino altri pezzi del regime, come il ministero della Difesa e l’intelligence, criticano in pubblico la ricostruzione come un’invenzione penosa tirata fuori dal cappello a cilindro delle agenzie ufficiali per coprire la disfatta. Gli iraniani che non fanno parte dell’apparato di sicurezza, a maggior ragione, non abboccano. Sono assuefatti alle invenzioni della propaganda di Stato e ormai prendono i notiziari con umorismo cinico. Una caricatura che gira molto mostra un Transformer – quei robot capaci in pochi secondi di tramutarsi in veicoli a loro piacimento – che ammette l’assassinio del generale.
L’impressione diffusa è che l’anno si stia chiudendo per l’Iran con un’altra disfatta sul piano della sicurezza, a concludere una lunga sequenza di rovesci. A gennaio c’era stata l’uccisione ordinata dall’Amministrazione Trump del generale Qassem Suleimani, capo del reparto delle Guardie della rivoluzione che si occupa delle operazioni speciali all’estero. Suleimani aveva uno status leggendario in Iran e la sua uccisione è stata un trauma nazionale.
Per vendicarlo la Guida Suprema, Ali Khamenei, aveva ordinato una ritorsione blanda che aveva preso la forma di una ventina di missili balistici sparati contro le basi americane in Iraq – una mossa così prevedibile che alla fine il numero delle vittime americane era stato: zero.
Ma quella notte la tensione era così alta che una batteria missilistica vicino alla capitale Teheran aveva creduto di essere sotto attacco da parte degli americani e aveva lanciato due missili contro un’aereo di linea che era appena decollato dal vicino aeroporto internazionale. Centosettantasei vittime. Per tre giorni il regime aveva tentato di insabbiare il caso, ma poi aveva dovuto capitolare perché le prove dell’abbattimento erano schiaccianti e aveva ammesso il terribile errore. La ritorsione era diventata un autogol. Figurarsi l’umore degli iraniani, umiliati due volte in pochi giorni prima dall’Amministrazione Trump e poi dal governo.
Durante l’estate è arrivata un’altra grave violazione della sicurezza di Stato: un gruppo di sabotatori aveva piazzato una bomba dentro un edificio di Natanz, il più grande centro nucleare dell’Iran, dove migliaia di centrifughe producono prezioso combustibile atomico. L’esplosione che ne è derivata ha fatto danni così gravi che era impossibile da smentire. Secondo gli esperti sentiti dal «New York Times», ha rallentato la produzione di almeno un anno.
Non è ancora per nulla chiaro cosa è successo, ma di nuovo i sospetti cadono su Israele. Si capisce che c’è un clima di paranoia, ci si chiede da dove arrivino i sabotatori e i killer (forse interni al Paese e non agenti israeliani infiltrati), si ipotizza che siano già scappati all’estero, magari attraverso il confine con l’Azerbaigian – che in questi anni è un po’ diventato quella che era Casablanca durante la Seconda guerra mondiale, un porto franco dove s’incrociano un po’ tutti: israeliani, iraniani, arabi. Oppure attraverso il confine con il Kurdistan. Oppure ancora che siano partiti via mare. E se fossero al sicuro, nascosti in qualche casa insospettabile di una città dell’Iran, a preparare la prossima operazione? La pressione, anche se da fuori non si vede, dev’essere altissima.
Tutto questo però non deve far dimenticare il quadro generale. L’Iran ormai non ha più bisogno di singoli scienziati per arrivare alla costruzione della bomba atomica, negli anni ha costruito un sistema che sforna tecnici capaci e ormai possiede il know-how. Il giorno dopo la morte di Fakhrizadeh il capo dell’Organizzazione atomica iraniana, Ali Akbar Salehi, ha detto che «è stato creato un sistema efficiente che è capace di andare avanti e raggiungere i suoi obiettivi senza intoppi».
Il regime ha soltanto bisogno di abbastanza combustibile atomico e soprattutto di una decisione politica di andare avanti davvero, sapendo che la costruzione di un arsenale atomico, se diventasse una notizia pubblica, potrebbe portare alla guerra e forse alla fine dell’Iran khomeinista.