«Sono stata violentata a 15 anni. Non è una cosa che dimentichi. Ma sono andata avanti. Certo, non avevo alternative…». Lo racconta una giovane del Luganese. La conosco da poco tempo. Lo dice guardandomi negli occhi, sapendo che, «da donna», avrei capito le motivazioni della confessione. Come avrei capito al volo quando parlava di sguardi equivoci, parole e azioni indesiderate, ad esempio nel contesto lavorativo. Allora faceva la cameriera. Quello che mi è rimasto addosso, di lei, è l’energia che emanava. La forza della voce, il coraggio delle parole, gli occhi spalancati. È andata avanti per davvero, o almeno così pare, si è costruita una vita. Studia, si è sposata, sembra serena. È dunque possibile «guarire» da un’esperienza di quel tipo? La mente corre allo stupro di Palermo e alla 19enne che ha dovuto subire, a fine luglio, la furia di un branco di ben identificati criminali (che hanno filmato la scena, un video tra l’altro molto ricercato sul Web, si legga Aldo Grasso a pag. 35). E alla lettera che il padre della ragazza violentata da cinque delinquenti a Roma, la notte di Capodanno del 2020, ha dedicato alla prima (apparsa settimana scorsa su «La Repubblica»). L’uomo spiega in dettaglio lo stato di devastazione fisica e morale in cui si ritrova la vittima di tale violenza e l’angoscia delle persone che le vogliono bene. Parla di quell’«esserino annichilito», «un essere spezzato» su cui si trova a vegliare, a distanza di anni; della «bolla tutta interna di dolore fisico e dell’anima» che imprigiona sua figlia. Descrive tra le altre cose l’ansia, le crisi di panico, il terrore degli altri, l’insonnia, il richiamo della morte, i ricoveri, le cure…
Si cambia casa, si cambia contesto ma «il mostro» è sempre in agguato, pronto a risvegliarsi. «“Stress post traumatico”, è ovvio, ma in quali patologie si trasformi, in quali fragilità intime e sociali si evolve questo stress non è per niente scontato», sottolinea l’uomo. «Ancora meno lo sono le soluzioni: e allora si tenta un tipo di terapia e poi un’altra; e allora una ragazzina, lucida e che sa di non meritarlo, deve sperimentare se è meglio l’Efexor, il Prozac o il litio e si intossica, e oltre a tutto deve far fronte agli effetti collaterali…». Una via d’uscita sembra difficile da trovare. «Le ferite variano», affermava la psicologa e psicoterapeuta Angela Andolfo Filippini (su «Azione» del 20 marzo 2023). «Le possibilità di recupero dipendono anche da qual è il terreno emotivo su cui si innesta il trauma. Non si tratta comunque mai di “tornare come prima” ma di capire come andare avanti dopo». Il primo passo – sosteneva l’esperta – è legittimare la propria sofferenza, riconoscerla come derivante dalla violenza subita e non come qualcosa di cui si è responsabili, ad esempio per un comportamento o un abbigliamento «sbagliato». La violenza non è mai una reazione ma un’azione deleteria di cui la vittima non ha colpa. Nessuna colpa. La vittima viene all’improvviso travolta da uno tsunami mentre l’aggressore rischia poco. In Svizzera, per uno stupro, da uno a 10 anni di carcere; nel caso di coazione sessuale è prevista una pena detentiva sino a 10 anni o una pena pecuniaria. Ma raramente il giudice infligge i massimi previsti dalla legge e talvolta il criminale si ritrova dopo pochi mesi a piede libero.
Tornando alle parole del papà citato sopra: «Uno stupro è un intricato puzzle di tradimenti che si incrociano e sovrappongono (…): il tradimento di chi ti usa come un oggetto e poi il tradimento di chi vede in te, vittima che ha deciso di denunciare per proteggere tutti, una scocciatura di cui sbarazzarsi così come eri solo un contenitore usa e getta di eiaculazioni animali». E qui si aprono due capitoli, antichi come la vergogna. Da un lato le reazioni degli altri a cosa è capitato (testimoni, vicini di casa, fruitori di notizie ecc.) e il catalogo non è dei più incoraggianti: c’è anche chi non muove un dito di fronte allo scempio e chi ha l’insolenza di scagliarsi contro la vittima, sui social e non solo.
L’altro capitolo è quello delle donne viste e trattate come oggetti. «Bisogna educare i ragazzi a non pensare al corpo femminile come a un recipiente», ha affermato Dacia Maraini sulle colonne di «La Repubblica». Bisogna educare tutti al rispetto (e non le donne a fare attenzione). Spiegare ai ragazzi cos’è l’intimità, il rispetto della volontà dell’altra e dei confini di ognuno. Far passare il messaggio che la violenza non è mai una via. «Gli adulti – sia a casa sia a scuola – devono prendersi il tempo di spiegare e di accompagnare i più giovani attraverso un percorso di consapevolezza», spiegava l’avvocata Lorella Bertani, impegnata nella difesa dei diritti delle vittime di violenza nel Canton Ginevra (su «Azione» del 14 novembre 2022).
Educazione. Rispetto. Li si invoca da tempo, ma con quali risultati? Social, alcuni tipi di musica, l’accesso precoce alla pornografia non aiutano. E una certa mentalità rimane diffusa. Mentre trovate di cattivo gusto la alimentano invece di metterla in discussione. Solo per fare due esempi che di recente hanno scatenato polemiche: gli orinatoi a forma di bocca femminile spalancata, rosso fuoco, nei bagni di alcune palestre italiane. La donna in costume da bagno ricoperta di cioccolato stesa sul tavolo dei dolci di un albergo in Sardegna. Almeno qualcuno si è ribellato. La discussione si è di nuovo aperta. E qui arriviamo alla terza immagine che, in diverse forme, ha cominciato a circolare sul Web: mani aperte e l’hashtag «#iononsonocarne», la campagna social di solidarietà verso la ragazza violentata dal branco a Palermo (che si riferisce a una frase detta da uno degli stupratori, «la carne è carne»). «Io non sono carne», ripetuta da personaggi noti del mondo dello spettacolo. «Io non sono carne». Una triste frase da ribadire ogni giorno, con forza.