Inflazione, vaccini e diplomazia

Che autunno ci aspetta? Le previsioni sulla congiuntura internazionale nell’ultimo scorcio del 2021
/ 02.08.2021
di Federico Rampini

Quale economia ci attende in autunno? La risposta dipende da tre fattori. Primo l’inflazione. Secondo la vaccinazione. Terzo i rapporti Usa-Cina. Seguo questo ordine. Le aspettative d’inflazione stanno calmandosi un po’, a cominciare dagli Stati uniti dove la turbo-ripresa le aveva infiammate. Consumatori, imprese, investitori in bond, stanno rivedendo al ribasso le loro attese sui rincari dei prezzi. Dopo un periodo in cui le previsioni sul carovita continuavano a crescere, che è durato dall’ottobre 2020 al maggio di quest’anno, negli ultimi due mesi l’allarme-inflazione si è leggermente attenuato. Tra i consumatori americani c’è pur sempre l’attesa di un aumento medio dei prezzi del 4,8% su base annua. Gli stessi consumatori però pensano che nell’arco dei 5-10 anni successivi l’inflazione tornerà a un livello più moderato, del 2,9%. A placare l’allarme sui prezzi concorrono due cause. Da una parte gioca il fatto che i maxi-piani di investimenti pubblici di Joe Biden faticano ad avanzare al Congresso (se approvati provocherebbero giganteschi aumenti del deficit pubblico). D’altra parte variante Delta, ripresa dei contagi e difficoltà nelle vaccinazioni, fanno temere una ripresa un po’ meno «turbo» a settembre.

Anche la Cina fa la sua parte nel moderare gli scenari inflazionistici. Anzitutto va ricordato che il Governo di Pechino dall’inizio della pandemia si è ben guardato dal varare maxi-piani di spesa pubblica, a differenza dell’America e dell’Europa. Non ne ha avuto bisogno, visto che la ripresa cinese l’abbiamo trainata noi usando una parte dei nostri piani di spesa pubblica per rimpinguare il reddito delle famiglie, che a loro volta ne hanno speso una parte per acquistare prodotti made in China. Ma dietro la prudenza nelle politiche di bilancio cinesi c’era anche la paura dell’inflazione. Xi Jinping ha usato le sue riserve strategiche di materie prime per interventi sui mercati mondiali finalizzati a calmierare gli aumenti dei prezzi delle commodities. Infine si nota che le imprese esportatrici cinesi in molti casi evitano di trasferire sui prezzi all’export la totalità dei rincari che subiscono nei loro costi di produzione (materie prime e salari).

Riguardo alla pandemia, il Fondo monetario internazionale (Fmi) stabilisce un legame forte tra il livello di vaccinazioni e le prospettive di crescita autunnali. Nelle sue ultime previsioni il Fmi rivede al rialzo la crescita di Stati uniti e Regno unito, tutt’e due attorno al +7% del Pil a fine anno, non a caso due Nazioni che vantano percentuali di vaccinati tra le più elevate. Lo stesso Fmi ritocca un po’ al ribasso la crescita cinese, e delle economie-satelliti nel sud-est asiatico. Alla Cina assegna comunque +8% del Pil a fine annuo.
Benché l’America sia più avanti dell’Europa continentale, Biden è alle prese con problemi simili all’Europa: siamo attorno al 70% di adulti vaccinati con almeno una dose, ma quelli che ancora rimangono da vaccinare non si fidano, dentro quel 30% si annidano resistenze di varia natura e coloriture ideologiche disparate. Descriverli come tutti trumpiani è una forzatura. In realtà l’ex portavoce di Trump sta facendo campagna tra i repubblicani perché si facciano inoculare «i vaccini di Trump» (ricorda cioè che fu lui a lanciare l’operazione di produzione in tempi record con Pfizer e Moderna nella primavera del 2020).

Il rischio di un approccio troppo autoritario è evidente in un’America sempre polarizzata dove metà del Paese è pronta a denunciare presunte «derive autoritarie». Si assiste così alla strategia del «nudge», la spintarella soft, che mescola obblighi e incentivi. Il Ministero dei veterani (reduci), che gestisce tanti ospedali militari, è il primo a imporre il vaccino al personale sanitario. Biden sta meditando di fare la stessa cosa per tutti i dipendenti federali e potrebbe annunciarlo da un momento all’altro. A livello locale, anche dove governa la sinistra come a New York, si adotta un approccio binario: i dipendenti pubblici che non sono vaccinati, per lavorare dovranno sottoporsi a tamponi continui. Infine interviene una spinta della società civile, dal basso: 300 bar di San Francisco hanno preso l’iniziativa da soli annunciando che accetteranno solo clienti vaccinati. Si cerca dunque di aumentare la convenienza a vaccinarsi senza arrivare fino all’imposizione. Intanto la decisione dell’Amministrazione Biden di mantenere chiuse le frontiere al turismo dall’Europa (e da ogni altra parte del mondo, in verità) la dice lunga sulle priorità: si preferisce sacrificare l’industria turistica pur di ridurre i rischi d’importazione del new Covid da aree dove la percentuale di vaccinati è più bassa.

Infine Stati uniti e Cina continuano a divergere e ormai il loro divorzio economico viene perseguito con alacrità da entrambe i Governi. L’ultima prova l’abbiamo avuta di recente, con la visita a Pechino di Wendy Sherman, numero due al Dipartimento di Stato, cioè viceministra degli Esteri di Biden. Si è vista consegnare una lista di otto richieste tassative da parte del ministro degli Esteri cinese. Siamo in piena Wolf warrior diplomacy, la Diplomazia del guerriero lupo (che racconto nel mio nuovo monologo teatrale «Morirete cinesi. La verità secondo Xi Jinping»). Le richieste di Pechino agli americani sono variegate, includono la levata di diverse sanzioni. Ma il fatto di averle divulgate pubblicamente le rende semplicemente irricevibili: ora Biden ha le mani legate più di prima, fare concessioni significherebbe perdere la faccia. Xi lo sa benissimo e quindi il suo gesto è pura propaganda, in vista di una tensione prolungata. Su un altro fronte si è visto quanto Xi sia disposto a pagare prezzi economici elevati pur di emanciparsi dalla dipendenza dagli Stati uniti. Dopo gli attacchi contro i colossi digitali di big tech a cui Xi sta gradualmente precludendo l’accesso a Wall Street, ora il leader cinese se la prende con un’altra tipologia di aziende quotate sulle Borse americane: le società che fanno «tutoring» cioè corsi privati per studenti.

È un business fiorente in Cina perché il sistema scolastico e universitario è molto selettivo e competitivo. Da anni è cresciuta una fiorente industria che impartisce lezioni private per preparare gli studenti agli esami. Le aziende del settore sono così grosse che alcune si sono quotate in Borsa a Wall Street. L’attacco del Governo consiste in questo: una nuova norma le costringerà a trasformarsi in non-profit, il che ovviamente ha subito fatto crollare le loro valutazioni in Borsa. Come nel caso di big tech, è interessante notare il mix di obiettivi che Xi persegue. Da una parte c’è una chiara impronta socialpopulista: nel caso dei giganti digitali Xi attacca la costruzioni di posizioni dominanti e gli abusi monopolisti a danno dei consumatori; nel caso del «tutoring» prende di mira un servizio che accentua le diseguaglianze sociali perché solo le famiglie benestanti possono regalare ai figli costose consulenze private in vista degli esami. Al tempo stesso, Xi tende a tagliare la dipendenza di grandi aziende cinesi dal mercato dei capitali americano, a spostarle verso Hong Kong, e così persegue una sorta di autarchia finanziaria in vista di ulteriori deterioramenti nel rapporto con l’altra superpotenza.