La crisi politica in Ecuador precipita nel confronto di piazza tra decine di migliaia di indigeni armati di pietre e i reparti antisommossa della polizia. Il governo del presidente Lenin Moreno è in bilico, il rischio che gli agenti aprano il fuoco sulla folla è alto. Martedì notte, dopo aver marciato attraverso il Paese incolonnati come un esercito civile appiedato, i manifestanti – ai quali si sono uniti molti gruppi studenteschi della capitale – sono arrivati a Quito da varie regioni dell’Ecuador e, a sorpresa, hanno sfondato i cordoni della sicurezza che circondavano il Parlamento. Sono entrati in Aula gridando «Fuori Moreno!». Sono stati sbattuti fuori dagli agenti, gli scontri sono durati per ore nelle strade del centro storico. È stato dichiarato il coprifuoco in città. Quattro i morti accertati.
La mobilitazione contro il governo è nata in opposizione a un pacchetto di aumenti di cui è diventato simbolico l’aumento del prezzo della benzina, quasi raddoppiato. Le misure fanno parte dell’applicazione di un accordo firmato di recente tra Lenin Moreno e il Fondo monetario internazionale. I primi a scendere in sciopero sono stati i tassisti, i camionisti e alcuni sindacati dei trasporti privati. La settimana scorsa la loro protesta si è placata, lo sciopero è stato interrotto. Nel frattempo era però montata la protesta nelle comunità indigene e nelle università. Lì l’insofferenza verso il presidente Lenin Moreno, accusato di aver virato bruscamente a destra non appena arrivato al potere, con la repentina adozione di misure giudicate vessatorie dei ceti più poveri, è ormai esplosa.
Chi era in piazza tra i manifestanti la notte dell’assalto al Parlamento, dopo la dichiarazione del coprifuoco, ha ascoltato molti dei leader indigeni arrivati a Quito assicurare che, da parte loro, la protesta continuerà finché il pacchetto di misure economiche non sarà revocato. La minaccia è considerata reale dal presidente Moreno, tanto che è scappato via dal suo ufficio scortato da militari e ha trasferito la sede del governo nella città costiera di Guayaquil, possibilità contemplata dalla Costituzione, ma attuabile sono di fronte a scenari di crisi gravissima.
Moreno grida al golpe e accusa il suo predecessore Rafael Correa, suo ex mentore poi tradito, di essere il regista della attuale crisi. «Correa sta usando settori indigeni politicizzati per capovolgere i risultati elettorali e buttarci fuori dal governo» accusa Moreno. «Adesso chiamano noi golpisti – gli risponde Correa dal Belgio, dove si è rifugiato per sfuggire a un probabile arresto e a una decina di processi per corruzione che lui considera strumenti di una persecuzione politica ai suoi danni – quando per anni hanno preso a schiaffi la Costituzione e la democrazia».
Correa, ex presidente filochavista che ha ambìto invano a diventare l’erede della leadership continentale della sinistra latinoamericana, chiede elezioni subito. Sa che il consenso attorno alla sua figura sta rimontando e che ora un candidato da lui appoggiato potrebbe probabilmente vincere se lanciato come suo delfino contro Moreno, il quale però non ha nessuna intenzione di andarsene. Anche perché è istituzionalmente protetto dalle conseguenze di una mossa politica abile e vincente ben piazzata da lui contro Correa nel febbraio dell’anno scorso, quando riuscì a convocare e a vincere un referendum messo a punto proprio per uscire dal cono d’ombra del suo ingombrante predecessore.
I sette quesiti della consultazione (ristrutturazione delle istituzioni a partecipazione popolare create dai tre governi Correa, inasprimento delle sanzioni per i casi di corruzione, limiti alle estrazioni minerarie, riduzione delle aree amazzoniche riservate alla deforestazione, modifiche fiscali) piantavano un confronto personale tra i due leader, basato essenzialmente su un obiettivo: impedire la rielezione di Correa nel 2021, eliminare la possibilità della ricandidatura infinita per la carica di presidente, che non esisteva in origine nella Costituzione dell’Ecuador e che Correa aveva introdotto per potersi perpetuare al governo.
Moreno è stato il vicepresidente del suo attuale nemico dal 2007 al 2013 ed è stato eletto al suo posto. Aveva giurato in campagna elettorale di voler portare avanti e approfondire quella che Correa chiama la «Rivoluzione cittadina», la rivisitazione in chiave filochavista delle istituzioni ecuadoregne. Poi, vista la situazione continentale, considerato il tramonto dei governi degli alleati del Venezuela chavista in America latina, Moreno ha deciso di riposizionarsi. Per far questo aveva bisogno innanzitutto di smarcarsi dal suo antico protettore. L’ha fatto. Sembrava esserci riuscito. Il precipitare della crisi di questi giorni sta rimescolando le carte.