India: la nuova fabbrica del pianeta

Delhi deve comunque fare i conti con il modello cinese, se al sorpasso demografico vuole aggiungere quello economico
/ 01.05.2023
di Federico Rampini

L’India ha sorpassato la Cina per numero di abitanti, secondo le Nazioni Unite. L’India è diventata nel 2023 la Nazione più popolosa del pianeta, togliendo alla Cina un primato che aveva da tempi immemorabili. Non possiamo affermarlo con certezza perché anagrafe e censimenti sono diventati attendibili solo in un’epoca recente, ma è verosimile che il primato cinese durasse da secoli o forse da qualche millennio. In questo senso il sorpasso è un evento storico, ha una carica simbolica. Eppure non ha avuto un’attenzione adeguata, è stato analizzato in modo meno approfondito di quanto meriterebbe. Una possibile spiegazione è l’imbarazzo. La demografia è diventata una disciplina carica di interpretazioni ideologiche, quasi sempre legate alle «religioni laiche dell’Apocalisse» che dominano le coscienze del nostro tempo. Quando gli sviluppi demografici mettono in pericolo i dogmi, denudano le nostre contraddizioni e incoerenze, la reazione è imbarazzo, reticenza, silenzio.

Il sorpasso indiano è rivelatore di un grumo di pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni, di cui non riusciamo a liberarci. Li riassume un’espressione nota: «bomba demografica». È uno degli scenari dell’Apocalisse in cui ci trastulliamo da tempo. La sua genesi risale al pensiero di Robert Malthus, sacerdote-economista dell’Ottocento il cui pessimismo ci influenza tuttora, essendo sopravvissuto a tutte le smentite che la storia ha inflitto alle sue previsioni. Malthus prevedeva carestie inevitabili, come unico strumento per regolare l’eccesso di popolazione, dati i limiti di fertilità della terra. Ma quei limiti di fertilità si sono rivelati un miraggio. Il progresso tecnologico ha consentito all’agricoltura di sfamare una popolazione crescente. Proprio l’India ne è la prova lampante: quando io ero bambino si facevano collette nelle scuole per salvare i nostri coetanei indiani dalla fame, oggi quel Paese è una superpotenza agricola, uno dei grandi esportatori mondiali di riso e farina di cereali.

Negli anni Settanta un ambientalismo catastrofista cominciò a lanciare l’allarme per la «bomba demografica». Eravamo troppi sul pianeta, ben presto si sarebbero esauriti il cibo, l’energia, e altre risorse naturali. Da allora siamo raddoppiati, l’Apocalisse non è accaduta, eppure i nuovi predicatori catastrofisti non hanno perso influenza. È una delle ragioni per cui il sorpasso indiano crea imbarazzo. È difficile ignorarne gli aspetti positivi; ammettere che c’è qualcosa di buono disturba le nostre certezze. Vaste aree del mondo oggi sono confrontate con una crisi della natalità. La tendenza a fare meno figli di quanti ne occorrono per compensare i decessi ebbe inizio in Giappone, si estese a gran parte dell’Europa. Di recente la Cina è finita nella trappola della denatalità per cui la sua popolazione diminuisce. Gli Stati Uniti fanno eccezione per via dell’immigrazione. I catastrofisti che denunciavano la «bomba demografica» oggi parlano in termini drammatici di «spopolamento», a proposito di Paesi come l’Italia.

L’India offre una smentita dei catastrofismi anche per un’altra ragione. La sua crescita demografica è positiva ma non troppo. La «bomba demografica» si è sgonfiata anche lì. La natalità indiana rimane positiva, sufficiente a compensare i decessi, ma di poco. Il confronto tra Cina e India ci rivela questo: la Repubblica Popolare adottò una politica feroce di controllo delle nascite con la regola del «figlio unico» imposta nel 1979. All’inizio fu quella imposizione dall’alto a determinare il calo della natalità. Poi sono subentrati fattori sociali e culturali. Quando il regime cinese si è accorto di avere esagerato e ha tentato di correggere il tiro era troppo tardi. Oggi Pechino incentiva le mamme a fare due o anche tre figli, con scarsi risultati: sono le donne a non volerli più. L’evoluzione culturale sta avvenendo anche in India, solo a ritmi più lenti e in modo naturale. In 35 anni l’India ha ridotto la sua natalità: la Cina lo aveva fatto in 7 anni. I comportamenti riproduttivi seguono la stessa regola nel mondo intero. Via via che aumenta il livello d’istruzione delle donne, e anche con lo spostamento della popolazione dalle campagne alle città, il numero di figli diminuisce ovunque. Succede perfino in Africa. L’India è stata il modello più vasto di questo «soft landing» o atterraggio morbido, per cui la bomba demografica si sgonfia da sola.

Proprio perché l’India sta arrivando più tardi e più lentamente al calo della natalità, la sua struttura demografica oggi presenta un vantaggio. La forza lavoro indiana è segnata da un peso preponderante dei giovani, proprio quando quella «fabbrica del pianeta» che è la Cina subisce un invecchiamento della manodopera. Anche in questo confronto bisogna evitare i toni apocalittici. La Cina non è alla vigilia di una catastrofe da invecchiamento precoce. Dovrà adattare la propria economia a una popolazione più anziana. Se guarda al modello del Giappone, come in parte sta facendo, la Repubblica Popolare investirà di più nell’automazione in modo da adattarsi al calo di giovani lavoratori. Dovrà anche spostare risorse verso il Welfare. Sono aggiustamenti costosi ma non impossibili. In quanto all’India, per qualche tempo può sfruttare il suo vantaggio – la forza lavoro giovane – per offrirsi come «la nuova fabbrica del pianeta», l’alternativa alla Cina. La sua offerta ha bisogno di mostrarsi convincente per le aziende multinazionali, altrimenti troppi giovani indiani rischiano di rimanere disoccupati, o di doversi accontentare di lavori poco produttivi, sottopagati. Non esiste ancora una strada alternativa verso il progresso e il benessere economico che non passi dall’industria. L’agricoltura offre lavori di alta qualità e buona remunerazione solo in quei Paesi dove impiega pochissima manodopera.

Il settore dei servizi – dove l’India ha punte di eccellenza informatica nella sua Silicon Valley di Hyderabad e Bangalore – non può garantire occupazione di massa se prima non c’è stata una generazione di «genitori operai» che hanno guadagnato abbastanza nell’industria da poter mandare i figli all’università. Ecco perché l’India deve comunque fare i conti con il modello cinese, se al sorpasso demografico vuole aggiungere un sorpasso economico, il risultato più importante per i suoi cittadini. Per essere credibile come alternativa al dragone cinese, l’elefante indiano deve offrire alle aziende non solo la manodopera giovane ma anche altri ingredienti: un’istruzione di massa a livelli medio-alti; buone infrastrutture di trasporto per distribuire i prodotti industriali sui mercati esteri; energia elettrica affidabile e a basso costo; una burocrazia che non sia ostile all’impresa. Al momento l’offerta indiana è inferiore all’offerta cinese. Non a caso l’India è la quinta economia mondiale mentre la Cina è la seconda; mentre negli anni Settanta (all’epoca del maoismo) Delhi era più ricca di Pechino.

Resta l’aspetto geopolitico. La democrazia indiana che supera l’autocrazia cinese è un segno più per l’alleanza pro-occidentale che l’America vuole costruire. Delhi avrà un ruolo crescente nel dispositivo politico-militare di contenimento dell’espansionismo cinese. L’India non si lascerà attrarre in una NATO asiatica, vorrà mantenere la propria autonomia strategica, ma l’Occidente potrà contare su di lei come un bilanciamento della Cina. Sul piano militare il sorpasso è lontano, però. Non siamo più in un’epoca in cui la forza degli eserciti è proporzionale alla massa umana: altrimenti gli Stati Uniti con un quarto della popolazione cinese non sarebbero la prima superpotenza. L’esercito indiano soffre delle stesse patologie della burocrazia: corruzione e inefficienza. L’elefante ha ancora molta strada da fare.