Una campagna aspra e sovreccitata, piena di promesse impossibili da mantenere e di alleanze imposte dalle circostanze ma tutt’altro che indolori, sta portando l’Italia all’appuntamento del 4 marzo, quando si rinnoveranno Camera e Senato, mentre gli elettori di alcune regioni, fra le quali Lombardia e Lazio, eleggeranno anche gli organismi locali. Poiché il consenso si divide in tre parti più meno equivalenti, centrosinistra, centrodestra e Movimento cinque stelle, è improbabile che una delle tre raggiunga una consistenza che possa permetterle di governare da sola: anche se ovviamente tutti parlano di vittoria a portata di mano. E così sulle riluttanti alleanze pre-elettorali si sovrappone la prevedibile necessità di coalizioni post-elettorali ancora più problematiche, alla quale si sottraggono solo i Cinque stelle, da sempre refrattari ad accordarsi con la «casta» dei partiti. Tuttavia anche loro si dicono pronti, oltre che a governare il paese in prima persona, a non rifiutare soccorsi esterni, insomma ad accogliere i voti di tutti coloro che ritengano di poter accettare singole proposte di legge.
Nonostante questa timida apertura, la prospettiva del governo a Cinque stelle guidato da Luigi Di Maio, informale candidato alla presidenza del consiglio, suscita non poche perplessità. Per la prima volta uno dei maggiori paesi europei sarebbe guidato dalle forze anti-sistema, sia pure nel caso specifico ammorbidite dalla presa di distanza di Beppe Grillo, il padre fondatore che si è rifugiato in un blog tutto suo abbandonando quello del movimento. La possibilità che quest’ultimo agguanti il potere, oltre al declino della popolarità di Matteo Renzi, è fra gli elementi che hanno permesso a Silvio Berlusconi di uscire da anni di isolamento politico e riaffacciarsi alla ribalta italiana ed europea. Nella sua recente missione a Bruxelles si è presentato come argine all’insidia dei Cinque stelle, rassicurando i vertici dell’Unione europea sulla fedeltà ai trattati e ai vincoli. Compreso il limite del tre per cento sul deficit di bilancio. Ma poiché questa è materia rovente che da sempre fa discutere, il suo principale alleato, il capo della Lega Matteo Salvini, lo ha prontamente contraddetto: il tre per cento? Se ci conviene sforare, sforeremo!
È davvero una bizzarra alleanza quella che Berlusconi si sforza di tenere insieme. Poiché lui non è candidabile per via della nota situazione giudiziaria, il segretario della Lega, amico di Marine Le Pen e nemico di Europa e migranti, propone se stesso per la presidenza del consiglio. Facendo così balenare un’alternativa Salvini-Di Maio che certo non è fatta per esaltare Bruxelles. Berlusconi gli risponde che sarà Forza Italia a indicare il nome del capo del governo: i sondaggi non assicurano al suo partito un certo vantaggio sulla Lega?
Molte cose dividono i due alleati: per esempio Salvini voleva includere nel programma l’abolizione della legge Fornero sulle pensioni, Berlusconi proponeva una semplice correzione. Alla fine ha ceduto: via la legge Fornero. Del resto l’alleato, che punta le sue carte sul tema esplosivo dei migranti, confida di sbaragliare il campo, persino in quel Mezzogiorno che la ex Lega Nord indicava un tempo come palla al piede dell’Italia. Il furore leghista sulla questione migratoria è tale da indurre Attilio Fontana, candidato alla presidenza della Lombardia, a parlare della necessità di difendere la razza bianca.
Sta di fatto che il tema migranti, declinato da una parte come accoglienza, dall’altra come invasione, sta dominando la campagna elettorale.È vero che gli sbarchi sono diminuiti dopo gli accordi con la Libia e grazie all’attivismo del ministro dell’interno Marco Minniti, ma il problema resta scottante, così come la posizione geografica dell’Italia che ne fa il primo approdo per chi fugge dall’Africa, e dunque il paese che secondo l’intesa di Dublino deve sbrigarsela da sé.
Mentre Salvini promette che se andrà al governo una delle prime mosse sarà l’espulsione di centomila clandestini, sull’altro fronte si segnala la necessità di modificare la rotta, premendo sull’Unione Europea per un riequilibrio della gestione su scala continentale. L’Europa è l’altro grande tema sul quale si misurano i partiti. Nonostante il passo di Berlusconi a Bruxelles il centrodestra è appesantito dalle rigide posizioni leghiste, mentre lo schieramento opposto invoca maggiore flessibilità e sui migranti una maggiore attenzione al ruolo dell’Italia. Fra gli alleati del Pd c’è anche un movimento dichiaratamente europeista, guidato dall’ex commissaria ed ex ministra degli esteri Emma Bonino. Si chiama Più Europa e sottolinea la necessità di un aggancio senza remore ai destini dell’Unione.
Quanto ai Cinque stelle, la concreta prospettiva della conquista di Palazzo Chigi li ha indotti a smorzare i toni euroscettici del passato. Fra i venti punti programmatici che Di Maio si propone di realizzare non c’è traccia di quel referendum per l’uscita dall’euro che fu tra i capisaldi della predicazione grillina. Azzimato e compassato, Di Maio sbaglia qualche congiuntivo ma veste i rassicuranti panni del moderato, sembra voler contraddire anche fisicamente l’immagine barricadiera che caratterizzava il movimento.
Sa che la sua inesperienza personale e le inefficienze nei comuni amministrati dai suoi potrebbero penalizzarlo, eppure si dice sicuro del successo. Al tempo stesso, prendendo atto delle previsioni demoscopiche che gli negano la possibilità di governare in beata solitudine, rispetto alla posizione originaria dei Cinque stelle ha voluto la correzione che, pure escludendo la formula delle alleanze organiche, dice addio all’orgoglioso isolamento grillino. Intanto non esita a fare l’occhiolino alla Lega. Bisognerà pur governare in qualche modo, anche a costo di scontentare Grillo.
Se l’alleanza di centrodestra, di cui fanno parte anche Fratelli d’Italia, il partito post-fascista di Giorgia Meloni, e la cosiddetta quarta gamba formata da gruppi centristi, appare così litigiosa, anche l’opposto settore vive giornate febbrili. Con un Partito democratico che i sondaggi registrano in caduta libera, fino a sfiorare l’incubo del dimezzamento rispetto al 40 per cento del voto europeo di quattro anni or sono, gli alleati minori alzano la voce e bisticciano sull’assegnazione dei collegi previsti dalla nuova legge elettorale, un misto di proporzionale e maggioritario che mette a dura prova le strategie dei partiti. Fra i candidati al Senato sarà il segretario del Pd Renzi, che non ha mai fatto parte del parlamento, mentre l’attuale presidente del consiglio Paolo Gentiloni, uomo forte del momento in termini di popolarità, è sempre più considerato il successore di se stesso in caso di affermazione del centrosinistra. Puntando sul contrasto ai Cinque stelle, Gentiloni riconosce implicitamente la possibilità di un governo di coalizione, di cui «saremo il pilastro». Al tempo stesso si dice non interessato a farlo con il centrodestra.
Nonostante questa precisazione la prospettiva latente della grande coalizione alla tedesca agita le acque in questa nervosa vigilia elettorale. Se il Pd di Renzi ha perduto consensi a sinistra, in buona parte lo deve al fatto che il suo asse si è nettamente spostato verso posizioni neoliberiste. Le stesse, più o meno, di Berlusconi che non a caso, pur attaccando il Pd e negando ogni intenzione di «inciucio», riconosce a Renzi il merito di essersi liberato dei «comunisti». Cioè della vecchia guardia proveniente dal Pci, promotrice delle nuove formazioni che insidiano da sinistra il Pd. Una di queste è guidata dal presidente del Senato, l’ex magistrato Pietro Grasso, e appare in grado di ottenere buoni risultati. Naturalmente i Liberi e uguali, così si chiama la formazione di Grasso, contestano che quello di Renzi si possa ancora definire partito di sinistra.
Per accalappiare un elettorato smarrito e riluttante, e contenere un’astensione che si preannuncia massiccia, i candidati fanno a gara nel promettere mari e monti. Se si volessero davvero realizzare i programmi sbandierati dai partiti il bilancio dello Stato già in affanno andrebbe a rotoli. Berlusconi parla di flat tax, un’imposta sui redditi con aliquota fissa al 23 per cento. Al ministro delle finanze Pier Carlo Padoan, che ironizza sulla voragine che questa misura aprirebbe nel bilancio, replica dicendo che la sua formula libererebbe risorse per gli investimenti e la domanda interna, e quindi alla fine farebbe aumentare il gettito fiscale... Renzi promette di ridurre di un quarto entro il 2020 l’enorme debito pubblico. I Cinque stelle parlano di reddito di cittadinanza per tutti. Grasso propone di eliminare le tasse universitarie.
Fra tanti costosissimi impegni, Salvini promuove invece una misura di risanamento dei conti pubblici: riaprire le «case chiuse» facendo pagare le tasse alle prostitute.