In vendita il giornale di famiglia?

Italia - Secondo «La Stampa» di Torino, è imminente la cessione del «Giornale» fondato da Indro Montanelli da parte del clan Berlusconi – Si chiude un’epoca che ha segnato la politica e il giornalismo della penisola
/ 21.02.2022
di Alfio Caruso

Era il 25 giugno 1977. Nell’albergo vicino alla stazione Centrale di Milano si palesò all’ora di pranzo un elegantone con le scarpe dal tacco smisurato, i capelli lunghi fino alle spalle a compensare quelli mancanti sul cranio. Si chiamava Silvio Berlusconi: nella piccola folla d’invitati a festeggiare il terzo genetliaco del «Giornale», lo conoscevano soltanto il direttore-fondatore Indro Montanelli e pochissimi altri. Berlusconi aveva appena rilevato il 12 per cento delle quote azionarie, fin lì detenute, in misura diversa, dai cinquantaquattro giornalisti. Alla nascita del «Giornale» Montanelli aveva voluto ripetere la formula del parigino «Le Monde» con l’azionariato diffuso fra i redattori. Gli era servito per offrire un’attrattiva in più a quanti lasciavano un posto sicuro, la pattuglia più rilevante giungeva dal «Corriere della Sera», per correre un’avventura, che veniva pronosticata di pochi mesi.

Un banchiere aveva presentato Berlusconi a Montanelli. Il quarantenne Silvio cominciava a crescere nella Milano dei re di denari grazie alla mega operazione immobiliare di Milano 2, super residenza per ricchi con laghetto incorporato e servizio di sorveglianza. Montanelli era invece alla ricerca di finanziatori per la sua creatura: la Montedison, il gigante pubblico della chimica che ne aveva consentito l’iniziale sopravvivenza con 12 miliardi di lire garantiti per tre anni dalla pubblicità, aveva battuto in ritirata per la fuga dall’Italia del suo dominus, Eugenio Cefis. Berlusconi aveva annusato la possibilità di balzare finalmente sul proscenio. In quel modo era incominciata la sua avventura nell’editoria: un anno dopo sarebbe seguito l’acquisto di Tele Milano 58, all’epoca la rete via cavo di Milano 2, presto trasformata in Canale 5, e il resto, dalla compera delle altre emittenti alla compera della Mondadori, lo trovate ormai nei libri di storia.

Il «Giornale», adesso formalmente del fratello Paolo, è stato sempre definito da Berlusconi il quotidiano di famiglia dall’incalcolabile valore sentimentale. Il valore economico, viceversa, dev’esser stato calcolato, se nel mondo dei media si dà per avvenuta la cessione ad Antonio Angelucci, l’ex portantino abruzzese divenuto il monarca della sanità romana e già proprietario di due altre testate, il «Tempo», che si edita a Roma, e «Libero», che si edita a Milano. Nei piani di Angelucci, da alcune legislature deputato di Forza Italia, dovrebbe formarsi un polo della stampa moderata con riflessi sugli introiti pubblicitari e anche sui costi accorpando un bel po’ di servizi.

Sembra che a spingere Berlusconi, e più ancora i figli Marina e PierSilvio impegnati nella gestione della holding, siano stati i costi e i debiti del «Giornale», coinvolto nella debacle italiana delle vendite in edicola. Dalle 200mila copie dei tempi d’oro alle 30 mila attuali con pochissimo supporto dagli abbonamenti sul digitale. Tutto il contrario di quanto accaduto al «Corriere della Sera» precipitato da 650mila copie a 160mila, ma con quasi 300mila abbonamenti digitali. Il crollo delle vendite, e conseguentemente dei ricavi pubblicitari, ha comportato per il «Giornale» l’impossibilità di tenere i conti in ordine, malgrado i giornalisti siano stati ridotti a poco più di un terzo. In ogni caso finisce una simbiosi che ha caratterizzato le vicende nazionali degli ultimi quarant’anni. Berlusconi difatti acquisì la maggioranza sostanziale del «Giornale» nel 1979: sborsando circa 4miliardi di lire (13,5 milioni di euro) rilevò un altro 37,5 per cento del capitale con opzione sul restante. Al momento della firma Montanelli tenne a precisare: «Tu sei il proprietario, io sono il padrone almeno fino a che rimango direttore. La vocazione del servitore non ce l’ho».

Per meglio esplicitare il proprio ruolo, Montanelli usò spesso il «controcorrente», la velenosa rubrica di poche righe e di maggior successo. Ci pizzicava gli amici politici di Berlusconi o quelli che domandavano una maggiore attenzione: la vittima per eccellenza divenne l’allora segretario della Democrazia Cristiana, Flaminio Piccoli. Berlusconi si rassegnò a non avere voce in capitolo sulla prima pagina, in cambio, pretese campo libero nelle pagine della televisione e degli spettacoli. Nella sua sfera d’interesse erano infatti entrati anche il teatro e il cinema. Sul palcoscenico del Manzoni l’avevano folgorato le grazie straripanti della giovanissima Veronica Lario. In un nugolo di fidanzate ne fece la compagna stabile. Venne ingaggiata, strapagandola, Lina Wertmüller perché le cucisse addosso un film. Nell’84 uscì Sotto…sotto… strapazzato da anomala passione con musiche di Paolo Conte, protagonista maschile il comico di maggior successo del momento, Enrico Montesano.

Il «Giornale» aveva purtroppo l’abitudine di dare voti e pagelle agl’interpreti dello spettacolo. Sogghignando Montanelli aveva sibilato: «Ragazzi miei, qui vi voglio. Con la fiamma del Berlusca ve la sbrigate voi». Alla vigilia della prima il critico cinematografico si dette malato, mentre il vice si rese irreperibile. Fu necessario ricorrere al sorteggio per trovare chi firmasse recensione e pagelle. La Wertmüller aveva girato la pellicola, un poco plausibile amore omosessuale tra due donne, con la mano sinistra: il prodotto era mediocre, i voti oscillarono tra 5 e 6 (note italiane). A parte queste eccezioni legate al talamo, l’interesse di Berlusconi stava ovviamente concentrato sulle pagine televisive. Il suo disinteressato suggerimento era di parlare benissimo dei programmi di Canale5, Rete4 e Italia1, le tre reti della real casa, e malissimo dei programmi della Rai. Non ebbe partita vinta, ma alla lunga il responsabile della redazione preferì dimettersi. Questi guidava anche lo sport e Berlusconi, assurto pure a presidente del Milan, aveva spiegato che se la squadra avesse vinto il merito sarebbe stato dei consigli da lui dati all’allenatore Liedholm, mentre se avesse perso la colpa sarebbe stata di Liedholm, che non aveva ascoltato i suoi consigli. E si era pure stupito nel vedere disattesa tale lapalissiana verità.

In pochi anni Berlusconi conquistò alla causa aziendale alcuni dei principali collaboratori di Montanelli. La rottura maturò incomprensione dopo incomprensione, compreso il rifiuto del secondo di essere seppellito nel mausoleo preparato dal primo dentro la residenza di Arcore («Domine, non sum dignus», la sua frase). La spinta conclusiva giunse dalla discesa in politica di Berlusconi nel ’94 con Montanelli nettamente contrario. A differenza della vulgata corrente, Berlusconi non aveva alcuna intenzione di trattenere Montanelli: per lui rappresentava un ostacolo alle sue ambizioni. Il grande Indro colse la palla al balzo per rimarcare che lui sotto padrone non lavorava. Morendo nel 2001 si è almeno risparmiato la metamorfosi del foglio editato per ospitare, tra gli altri, Aron, Ionescu, Pelikan, Burgess e finito a parlar bene di tanti impresentabili.