In mezzo al guado tra Gibilterra e la Catalogna

Il premier spagnolo Pedro Sánchez ha risolto il problema della piccola enclave britannica che si unirà allo spazio Schengen dopo la Brexit ma l’ostacolo più difficile resta la questione catalana
/ 18.01.2021
di Gabriele Lurati

Una zona di prosperità condivisa. Così Spagna e Regno Unito hanno riassunto il senso dell’accordo trovato in extremis su Gibilterra e che ridefinirà le relazioni tra l’enclave britannica e il governo di Madrid nei prossimi anni. A poche ore dallo scadere della mezzanotte del 31 dicembre scorso la ministra degli Esteri spagnola González Lara e l’omologo britannico Dominic Raab hanno trovato l’intesa. Viene così mantenuta la libertà di muoversi fra la Spagna e Gibilterra nonostante la Brexit e vi sarà inoltre la nascita di una zona senza barriere. L’accordo su Gibilterra prevede infatti la scomparsa della cosiddetta «Verja», l’attuale frontiera esistente tra il territorio d’oltremare britannico e La Línea de la Concepción, la città andalusa confinante. Gibilterra si unirà così al «club di Schengen», raggiungendo Svizzera, Norvegia, Islanda e altri 22 Paesi dell’Ue nello spazio europeo che prevede la libera circolazione delle persone. D’ora in avanti i cittadini che abitano nei paesi Schengen potranno entrare liberamente nel territorio gibilterrino, mentre paradossalmente i cittadini britannici non residenti dovranno usare il passaporto per entrarvi.

A Gibilterra si è evitato quindi una «hard Brexit», cosa che avrebbe creato enormi problemi all’economia locale, considerando soprattutto che la Rocca ha un solo confine terrestre, quello con la Spagna. Questo lo sanno bene i gibilterrini che, nel referendum sulla Brexit del 2016, votarono in massa (96%) per rimanere nell’Unione europea. Alla fine si è trovata una soluzione che soddisfa entrambe le parti. Il primo ministro gibilterrino Fabian Picardo voleva continuare a garantire la libera circolazione delle persone e l’esistenza di un regime doganale speciale favorevole per Gibilterra. La Spagna non voleva la creazione di un confine rigido per Campo de Gibraltar, la regione spagnola che circonda Gibilterra, estremamente povera e con un’altissima disoccupazione. Le due zone, quella spagnola e quella britannica, sono talmente contigue e interdipendenti che avrebbero subíto un duro colpo economico se i loro abitanti non avessero più potuto spostarsi liberamente per lavorare (si pensi che sono circa 15’000 i cittadini spagnoli che entrano quotidianamente nel Peñón, la famosa Rocca, ai cui piedi vivono i 33’000 abitanti di Gibilterra in 7 kmq).

Il testo dell’accordo non parla invece della questione della sovranità sul territorio d’oltremare britannico, tema storicamente di grande scontro tra Spagna e Regno Unito. Gibilterra fu occupata dal Regno Unito nel 1704, quando fu trasformata in una fortezza e in una base navale da cui i britannici potevano controllare l’accesso al mar Mediterraneo. Nonostante da allora sia sempre rimasta sotto il controllo britannico, la Spagna non ha mai smesso di rivendicarne la sovranità. Negli ultimi decenni la Spagna ha spesso proposto la possibilità di una «sovranità condivisa» con il Regno Unito ma questo tema non è entrato nell’accordo appena sottoscritto e ciò ha generato le critiche dell’opposizione nei confronti del governo del socialista Pedro Sánchez. Il primo ministro spagnolo, dal canto suo, si è detto ugualmente soddisfatto di questo compromesso raggiunto all’ultimo minuto.

Sánchez in questi giorni celebra un anno dalla nascita del suo governo, il primo esecutivo di coalizione della Spagna postfranchista, e si ritiene contento di quanto fatto finora. Il premier ha dichiarato di aver raggiunto il 23,4% degli obiettivi che si era prefissato nell’accordo di governo con Podemos, il partito della sinistra massimalista, suo alleato di governo. Nato nel gennaio 2020 tra molti dubbi sulla sua durata e grazie alla decisiva astensione degli indipendentisti catalani di Esquerra Repubblicana (ERC), il governo rosso-viola di Sánchez ha ottenuto diverse vittorie significative per l’elettorato progressista e tutta la sinistra spagnola. Dapprima l’introduzione di un salario minimo (di 950 euro al mese), poi la riforma del sistema educativo, quindi una legge dal valore storico come quella sul diritto all’eutanasia ed infine l’approvazione di una legge di bilancio con l’aumento delle tasse per i redditi più alti e un inasprimento fiscale per le grandi aziende, soprattutto le multinazionali del settore digitale.

L’approvazione della Finanziaria, avvenuta in forma definitiva poco prima di Natale, è stata di particolare importanza politica perché si tratta del primo bilancio approvato dal 2018, quando ancora governava Rajoy, e inoltre perché la legge è passata in Parlamento con un margine molto più ampio rispetto al voto di investitura. Questo è avvenuto grazie al «sì» esplicito degli indipendentisti di ERC e di Bildu, il partito che fu braccio politico dei terroristi baschi dell’Eta. Ciò da un lato ha dato linfa politica a Sánchez, rafforzandone la sua posizione, e ha accresciuto la possibilità che rimanga in carica fino al 2023, anno della fine della corrente legislatura. Dall’altro lato l’appoggio datogli da questi partiti estremisti ha scatenato le ire delle opposizioni. Partito popolare e Vox hanno parlato di un ignobile cedimento di Sánchez davanti ai «golpisti catalani» e ai «terroristi baschi».

L’arrabbiatura dell’opposizione è andata aumentando ulteriormente dopo le recenti parole di apertura verso la Catalogna espresse dal primo ministro. Nella fattispecie, parlando dei rapporti tra Madrid e Barcellona, Sánchez ha parlato di «riconciliazione», ha riconosciuto che «tutti hanno commesso errori e che è importante superare episodi tristi del passato». Queste parole sono state lette politicamente come la preparazione del terreno per un possibile indulto del governo ai leader indipendentisti catalani, in carcere ormai da più di tre anni.

Gli analisti concordano però nel ritenere che questa carta nelle mani di Sánchez non sarà utilizzata prima dello svolgimento delle elezioni in Catalogna, previste per il 14 febbraio (Covid permettendo). Tuttavia il primo ministro ha sorpreso tutti recentemente, indicando il ministro della Salute Salvador Illa quale candidato alla presidenza della Generalitat. Illa, un catalano piuttosto grigio e pacato nei toni, era sconosciuto ai più fino al marzo scorso, quando il Covid è arrivato anche in Spagna e la sua faccia seria e occhialuta è entrata quotidianamente nelle case di tutti gli spagnoli. Le continue conferenze stampa sullo stato della pandemia gli hanno dato una visibilità enorme. Sánchez ha quindi voluto giocare d’anticipo sulla Catalogna, cambiando il candidato originario (Miquel Iceta, segretario del Psc, il Partito socialista catalano) e scegliendo un politico dal profilo conciliatore per una situazione politicamente incandescente come quella catalana. Il premier, con questa mossa a sorpresa, ha di fatto dato inizio alla campagna elettorale già 40 giorni prima dello svolgimento delle elezioni. Questa scelta ha dato carburante all’opposizione che non aspettava altro, accusando Sánchez di usare la pandemia per meri fini elettorali e di pensare più ai suoi interessi partitici che alla salute degli spagnoli.

Il premier si gioca molto nell’appuntamento elettorale catalano giacché i suoi due incarichi governativi sono finiti (nel 2019) o nati per mano degli indipendentisti catalani di ERC attraverso il loro decisivo voto (prima contrario e poi favorevole) nelle Cortes di Madrid. È indubbio quindi che il risultato delle elezioni catalane avrà ripercussioni sul futuro del governo Sánchez sia internamente (nei rapporti di forza con Podemos) sia per quanto riguarda la sua stabilità parlamentare, a seconda di chi ne uscirà vincitore (il fronte indipendentista o unionista). Infatti molti pensano che i problemi per Sánchez inizieranno solo dopo lo svolgimento delle elezioni in Catalogna.