La Seconda guerra mondiale divenne davvero un conflitto planetario quando il Giappone attaccò gli Stati Uniti a Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, dando al presidente americano Franklin Delano Roosevelt la spinta finale per l’intervento militare diretto. Nella narrazione giapponese quell’attacco a tradimento, senza una formale dichiarazione di guerra, era stato reso inevitabile perché l’America stava mettendo in difficoltà l’economia del Sol Levante con un embargo: non tanto di materie prime (benché Tokyo fosse dipendente dal petrolio americano) bensì di macchinari, aeroplani, prodotti tecnologicamente sofisticati. Quasi ottant’anni dopo Pearl Harbor, ci stiamo forse avvicinando ad uno scenario simile, dopo l’embargo decretato da Donald Trump sulle vendite di semiconduttori made in Usa alla Cina?
I negoziati commerciali tra le due superpotenze sono ripresi il 30 luglio a Shanghai ma senza progressi significativi. La delegazione americana e quella cinese hanno chiuso l’incontro con dei comunicati vagamente positivi, generiche dichiarazioni di ottimismo, e si sono date appuntamento per l’incontro successivo a Washington a settembre. Contemporaneamente Trump gelava l’atmosfera dichiarando poco probabile un accordo prima delle elezioni del 2020. Il presidente in questo caso è realista. Come si è visto al secondo duello televisivo tra i candidati democratici alla nomination, ormai l’opposizione fa a gara nello scavalcare Trump sul protezionismo contro la Cina; non gli darà tregua se dovesse accettare un accordo al ribasso. Ma soprattutto, è sul terreno delle tecnologie avanzate che Stati Uniti e Cina sembrano avviati verso «la trappola di Tucidide», l’inesorabile resa dei conti tra una potenza egemone in declino, ed una potenza in ascesa che aspira alla leadership.
Il caso dei semiconduttori s’intreccia e in parte coincide con il caso Huawei. In questi giorni l’Amministrazione Trump, precisamente il suo Commerce Department, dovrebbe rivelare quali aziende americane e per quanto tempo saranno «graziate» con un permesso speciale, per poter continuare a vendere componentistica alla Cina, in particolare al suo campione nazionale delle telecom, cioè appunto Huawei. Questo colosso, nato da una costola dell’Esercito Popolare di Liberazione, è stato accusato da Washington di ogni nefandezza: furti di segreti industriali americani, spionaggio strategico al servizio di Pechino; ed anche violazione di sanzioni contro l’Iran (per quest’ultima accusa è tuttora agli arresti domiciliari in Canada e in attesa di estradizione verso gli Stati Uniti la direttrice finanziaria di Huawei, Meng Wanzhou, che è anche la figlia del fondatore).
L’embargo entrò in vigore nel maggio 2019. Costrinse Google, Qualcomm, Broadcom e altre aziende a congelare le proprie forniture a Huawei. Nel caso di Google, ad esempio, è stata decisa la cessazione delle vendite di certi software Android che vengono installati sugli smartphone Huawei. Qualcomm invece è uno dei maggiori fornitori di microchip, memorie intelligenti che sono l’anima e il cervello dei telefonini. L’embargo ha colpito anche le vendite di altre aziende americane come Microsoft e Dell. Si allarga a imprese non americane, come la Samsung sudcoreana e la Panasonic giapponese. Basta che queste multinazionali incorporino il 25% di componenti made in Usa nei loro prodotti, per essere automaticamente soggette al provvedimento dell’Amministrazione Trump. Silicon Valley e dintorni hanno protestato contro questo embargo che danneggia anche l’America.
In media le aziende Usa esportano in Cina semiconduttori per un valore di 300 miliardi di dollari all’anno. Queste stesse aziende oggi sono soggette a contro-rappresaglie e ritorsioni da parte del governo di Pechino che ha iniziato a stilare un suo elenco di reprobi, aziende «inaffidabili», che saranno messe al bando per aver obbedito alle direttive di Trump. Ora le pressioni della lobby americana dei semiconduttori possono strappare una tregua. Sapremo molto presto quali aziende vengono esentate dall’embargo, per quali prodotti, per quanto tempo. Ma questo embargo ha comunque aperto uno scenario nuovo.
Tutti devono rivedere le proprie previsioni a medio-lungo termine. Siamo agli albori di una nuova guerra fredda (ammesso che non degeneri in guerra calda, conflitto militare vero e proprio); probabilmente si apre un’èra glaciale della globalizzazione. Verranno smontati molti dei meccanismi che avevano reso il mondo più omogeneo, integrato, complementare fino alla simbiosi. Tutto questo non nasce dalla smanìa protezionista di Trump. La «trappola» è un meccanismo che viene da lontano, verso cui convergono cambiamenti iniziati molto prima che Trump diventasse presidente.
Per un paio di decenni la Cina era stata libera di costruirsi un Internet separato, dietro quella nuova muraglia cinese che è la censura. Il numero di cinesi online supera la somma di americani ed europei. La Cina ci ha raggiunti e sorpassati in molte tecnologie digitali, ma si mescola relativamente poco con noi. Non usa gli stessi social media, visto che Facebook e Twitter sono vietati. Non usa le stesse messaggerie: Weixin sostituisce Whatsapp (vietato pure quello). I pochi coraggiosi che vogliono sfidare la censura cinese l’aggirano con i Vpn – Virtual Private Network – ma lo fanno a proprio rischio e pericolo.
La stragrande maggioranza dei cinesi è a suo agio in quell’Internet separato, dietro le recinzioni costruite dal suo governo. Oltre alla censura e al protezionismo che discrimina contro gli stranieri, c’è stato anche un boom d’imprenditorialità digitale, per cui alcune imprese hanno soppiantato la concorrenza americana trovando soluzioni più adatte ai gusti dei consumatori cinesi. Ma all’origine c’è stato comunque un robusto dirigismo pubblico che ha voluto favorire l’emergere di «campioni nazionali» cinesi.
In ritardo, l’America reagisce alzando a sua volta una muraglia. L’embargo – anche se avrà eccezioni e tregue – è la risposta di Washington a quella separatezza che Pechino ha pianificato molto in anticipo. La punizione americana individua una minaccia strategica prevalente; e un tallone d’Achille dell’industria cinese. La minaccia strategica più immediata – caso Huawei – è che la Cina conquisti la supremazia mondiale nella telefonia di quinta generazione, 5G, una tecnologia che potrebbe condurci verso una nuova dimensione del digitale (l’Internet delle cose, nuove frontiere per la robotica, l’automazione, l’intelligenza artificiale) con ricadute civili ed anche militari.
Il punto debole della Cina è appunto la sua dipendenza dai semiconduttori made in Usa. Come alla vigilia di Pearl Harbor, gli americani tentano di bloccare l’ascesa del rivale privandolo di risorse essenziali. Ma questo apre nuove domande. Com’è stato possibile che la Cina sia arrivata prima al traguardo del 5G, precedendo l’America? Quanto può essere efficace l’embargo sui semiconduttori made in Usa? Quali sono gli scenari che si aprono adesso?
La prima domanda, sul sorpasso cinese, non ha risposte univoche. Scelgo quella che mi pare più documentata e convincente, riassunta in un’analisi di Charles Duan, «Why China is Winning the 5G War», apparsa sulla rivista «The National Interest÷ il 5 febbraio 2019. Da una parte c’è una patologia americana che conosco bene, per averla analizzata anni fa nel mio libro Rete Padrona: la degenerazione nella guerra dei brevetti. La Silicon Valley, scrissi già anni fa, è diventata la Valle degli Avvocati: i Padroni della Rete si combattono sempre meno sul terreno dell’innovazione, sempre più nei tribunali. O prima ancora di arrivare ai tribunali, nell’accumulazione di arsenali di brevetti che servono soprattutto a dissuadere i nuovi ingressi: barriere giuridiche erette attorno all’oligopolio, che cristallizzano i rapporti di forze.
Nell’analisi di Duan sul banco degli imputati per il ritardo nel 5G c’è Qualcomm, la società di San Diego (non proprio Silicon Valley bensì California meridionale) che è stata all’avanguardia nell’innovazione per le telecom, ma oggi è soprattutto all’avanguardia «nelle strategie legali più contorte». Insomma l’America ha perso tempo ed ha accumulato ritardi nel 5G perché il ritmo dell’innovazione è stato rallentato dall’assenza di una vera competizione. Nello stesso tempo, gli investimenti cinesi nel 5G hanno già superato quelli americani per 24 miliardi di dollari. E Pechino pianifica 511 miliardi di dollari di investimenti nel 5G nell’arco del prossimo decennio. Da una parte abbiamo un modello americano a base di laissez-faire, che però non è più fondato su una vera libertà di mercato visto che i nuovi monopolisti riescono a soffocare la concorrenza.
Dall’altro c’è un modello cinese che riesce a combinare una forte presenza pubblica, un dirigismo governativo con importanti risorse, e una vera fioritura imprenditoriale. Questo in parte rievoca un altro capitolo delle sfide passate tra Stati Uniti e Giappone. Negli anni Ottanta sembrò che il Sol Levante fosse in grado di sorpassare l’America in molti settori, grazie ad un’originale combinazione fra statalismo, pianificazione pubblica, e capitalismo privato. Poi Ronald Reagan riuscì a fermare l’invasione nipponica con il suo protezionismo. Trump spera di fare la stessa cosa con la Cina. I dirigenti cinesi sembrano convinti di essere qualcosa di molto diverso dal Giappone degli anni Ottanta.
Di certo la prima lezione che vogliono trarre dallo scontro attuale è questa: accelerare la marcia verso l’autosufficienza. Lo ha detto a chiare lettere il fondatore e chief executive di Huawei, Ren Zhengfei. La sua azienda vuole bruciare le tappe per diventare autonoma nella produzione di semiconduttori. È una gara contro il tempo, fra un’America che spera di arrestare l’avanzata cinese «prima che sia troppo tardi», e la potenza rivale che non ha l’intenzione di fermarsi qui.